Cronache

Il nipote di Pierre Cardin: "Ecco tutta la verità sul grattacielo di Venezia"

Ha progettato il Palais Lumière: "Il più alto d'Italia, ma meno visibile delle ciminiere di Marghera. Mio zio lo costruirà anche a costo di dover impegnare tutto il suo patrimonio per poi tenerlo vuoto" 

Il nipote di Pierre Cardin: "Ecco tutta la verità sul grattacielo di Venezia"

Fra i vari obbrobri di Porto Marghera, la ciminiera della centrale termoelettrica di Fusina, alta 176 metri, incombe da mezzo secolo sulla Laguna veneta, attorniata da un'altra quindicina di fumaioli che si stagliano all'orizzonte della Giudecca con i loro anelli bianchi e rossi, ma non risulta che lo storico dell'arte Salvatore Settis, presidente del comitato scientifico del Musée du Louvre e indignato ospite di Fabio Fazio in una delle ultime puntate di Che tempo che fa, se ne sia mai lamentato in prima pagina sulla Repubblica. È bastato però che Rodrigo Basilicati, nipote dello stilista Pierre Cardin, presentasse a nome e per conto dello zio il progetto del Palais Lumière, 74 metri in più, un raggio di luce nello sfacelo di una zona industriale fra le più oscene e inquinate dell'intero pianeta, per suscitare l'esecrazione dell'accigliato professore. Sul quotidiano fondato da Eugenio Scalfari, a più riprese, Settis ha parlato di «sgangherato palazzaccio» che «sfregerà per sempre lo skyline di Venezia», di «mostro della Laguna», di «peggiore insulto», di «improvvisato grattacielo», di «mausoleo Cardin», arrivando a dire che il sindaco Giorgio Orsoni, reo di appoggiare l'iniziativa con la giunta di centrosinistra, «entra nella storia della Serenissima come un seguace non dei Dogi, ma dei barbari». È seguito un appello al presidente della Repubblica, con la richiesta di «vegliare perché a Venezia gli interessi privati e un malinteso culto del profitto non calpestino mortalmente la legalità costituzionale». L'hanno firmato 50 intellettuali, fra cui, in ordine strettamente alfabetico, Dario Fo, Vittorio Gregotti, Paolo Portoghesi, Franca Rame, Carlo Ripa di Meana, Stefano Rodotà e Tiziano Scarpa, oltre all'immancabile Settis.
In effetti il Palais Lumière è un vero pugno nell'occhio rispetto al panorama circostante, finora dominato dal ciclo cloro-soda del Petrolchimico, dalle raffinerie dell'Eni, dalle gru della Fincantieri, dalle caldaie alimentate a carbone, metano, nafta pesante e gasolio dell'Enel. Immaginate tre torri eteree, a forma di vela, la più alta delle quali misura 250 metri e ha 65 piani abitabili, collegate fra loro da sei strutture a forma di disco distanti 40 metri l'una dall'altra, in grado di ospitare fino a 15.000 persone su un totale di 188.958 metri quadrati. Un investimento da 2,45 miliardi di euro. Una costruzione avveniristica, ecologica, completamente autosufficiente grazie a un sistema integrato eolico, fotovoltaico e geotermico; pale e turbine, celate dentro i dischi di raccordo, sfrutteranno la potenza delle brezze marine e garantiranno i due terzi dell'intero fabbisogno energetico del grattacielo; una sonda scenderà fino a 2,5 chilometri di profondità per immagazzinare i 92 gradi di temperatura di una sorgente d'acqua termale: un terzo del calore prodotto sarà regalato al Comune, che lo utilizzerà per il teleriscaldamento delle case di Marghera.
Settis giudica inaudito che tutto questo possa essere «opera di un neolaureato quarantenne, ma il nepotismo, si sa, giustifica tutto», e infatti ha definito il progettista «il cardinal nepote Basilicati». Nipote è nipote, Rodrigo Basilicati, su questo non ci piove, e per di più il celebre zio (in realtà prozio), ormai novantenne, lo ha designato suo «erede artistico» in un'intervista concessa al quotidiano di Marsiglia, La Provence. «Appena lo conobbi, mi disse: “Non chiamarmi zio, mi fa sentire vecchio: chiamami Pierre”». Dapprima Cardin ha messo il giovanotto alla presidenza dell'Eau de Santé, una fonte di acqua minerale rilevata a Stia (Arezzo), nel Parco nazionale del Casentino. Poi gli ha dato da curare la licenza degli occhiali griffati Cardin prodotti dalla Safilo. Infine gli ha affidato la scuola di design di Parigi dove già operava il creativo Daniel You, «convinto che in futuro la moda conterà sempre meno e il design sempre di più», e la collezione Sculptures utilitaires, opere d'arte e oggetti d'arredamento dalle linee futuristiche prodotti in soli 12 esemplari, quindi pezzi unici, come quelli che abbelliscono il Palais Bulle di Théoule-sur-Mer, la villa di Cardin vicino a Cannes, «tutti recto-verso, da mettere al centro della stanza per essere visti da ogni angolazione, perché secondo mio zio è stupido piazzare un mobile contro il muro».
Nato a Padova il 29 dicembre 1970, «il cardinal nepote» è un ingegnere con diploma in pianoforte. Risiede a Badoere, nel Trevigiano, ma vive fra Venezia, dove lo stilista gli ha messo a disposizione un'ala di Ca' Bragadin, storico palazzo in Calle de la Regina abitato nel Settecento da Giacomo Casanova, e Parigi, dove ha sede la maison d'alta moda. È figlio di Giuseppe Basilicati, architetto originario di Zara, e di Lucrezia Cardin, matematica e astronoma patavina. Per chiarire meglio i legami parentali: colui che tutti chiamano, alla francese, Pièr Cardèn, all'anagrafe è Pietro Cardìn, con l'accento sulla «i», alla veneta, essendo venuto al mondo il 2 luglio 1922 a Sant'Andrea di Barbarana, frazione del Comune di San Biagio di Callalta, in provincia di Treviso.
Pierre Cardin è l'ultimo degli otto figli di una coppia di contadini costretti a emigrare oltralpe per fame nel 1924. Il terzogenito si chiamava Erminio, lavorava al Genio civile di Padova. Se n'è andato nel 2009, all'età di 96 anni. Era il padre di Lucrezia, dunque il nonno di Rodrigo Basilicati. E anche qualcosa di più: un mentore. «Mio padre», racconta il progettista del Palais Lumière, «voleva a tutti i costi che conseguissi la laurea in fretta, mentre io amavo la musica classica più che l'ingegneria civile. “Non si vive di pianoforte”, mi rimproverava. Così me ne andai di casa e trovai rifugio dal nonno Erminio. Tenevo concerti fra Italia, Francia, Spagna. Uno anche a Pechino. Finché, dopo una feroce selezione, non fui accettato, con altri 11 allievi d'ogni parte del mondo, nell'Accademia musicale Ferenc Liszt a Budapest».
Ha ragione Settis: che ne capisce un pianista di scienza delle costruzioni?
«Se sapesse che ho anche fatto per sei mesi il cameriere in una trattoria... Lo zio Pierre era meravigliato che studiassi per diventare ingegnere. Considerava la laurea una perdita di tempo. Siccome davo gratis lezioni private di disegno ai bambini, lo invitai al saggio finale di uno di questi corsi di pittura a Villa Tito, presso Dolo. Vide una copia della Battaglia di Anghiari di Leonardo da Vinci fatta dai piccoli allievi e rimase commosso. Alla fine volle aiutarmi a smontare la mostra. Mentre ripiegava con cura il raso nero che foderava i pannelli, mi disse: “Dovresti fare teatro, scenografia. Perché non vieni a Parigi?”. Io non colsi al volo che si trattava di una proposta di lavoro e cominciai a parlargli di musica. Lui non è certo il tipo da ripeterti due volte un'offerta. “Fai bene ad assecondare la tua passione”, concluse. M'invitò ad abitare nella sua residenza veneziana. Siccome lì non c'era il pianoforte, mi comprò un Bechstein del 1919 restaurato».
Ma questa benedetta laurea quando l'ha presa?
«Nel maggio 2011. Dopo essere rimasto fermo otto anni, ho dato cinque esami in 18 mesi e mi sono laureato con una tesi proprio sul Palais Lumière, relatore l'architetto Antonio Monaco. La materia prima su cui esercitarmi non è mancata. Da buon veneto, Cardin ha sempre investito nel mattone. L'ho già aiutato a restaurare il castello di Lacoste, in Provenza, dove trovò rifugio il Marchese de Sade in fuga da Parigi, ricercato per i suoi costumi libertini. L'ha acquistato insieme con 42 case e altri manieri sparsi nel circondario».
Com'è nata l'idea del Palais Lumière?
«Nel 2007 mio zio vide tre calle in un vaso legate da un nastro. “Perché non ricaviamo una scultura da questi fiori?”, chiese a me e a You. Un attimo dopo: “Perché non farla grande e metterla in una piazza?”. Passato un minuto: “E se la rendessimo abitabile?”. Schizzò un concept, ma non era realizzabile architettonicamente. Cominciai a lavorarci. Il nastro divenne una serie di otto dischi per tenere insieme le calle-torri. “Stessa idea ripetuta troppe volte: non mi piace”, sentenziò lo zio. L'altezza scese da 306 metri a 250, con sei dischi: “Adesso sì”. Il primo a vedere il bozzetto fu Hamad bin Khalifa Al Thani».
L'emiro del Qatar.
«Esatto. Gli realizzammo un plastico. “Fantastico, lo voglio a Doha”, s'infervorò. Ma lo zio nicchiava: “Che cosa c'entra il Palais Lumière con le sabbie del deserto?”. Da lì maturò l'idea di costruirselo in proprio. Il presidente Nicolas Sarkozy gli offrì otto location diverse a Parigi, giudicate troppo periferiche. A quel punto proposi: perché non lo facciamo a Venezia? Lo vidi illuminarsi: “Ma dove, a Venezia?”. Lo studio Altieri di Thiene, il più grande d'Italia, 200 ingegneri, ci offrì tre diverse ubicazioni. Una era Porto Marghera. Pensavo che allo zio non piacesse. Invece puntò a colpo sicuro il dito sulla mappa: “Qui!”».
Il primo con cui avete parlato?
«Il sindaco Orsoni, tre anni fa. “Straordinaria idea”, ci ha incoraggiati».
Fosse stato ancora sindaco Massimo Cacciari, non la passavate liscia. «Il progetto è orribile», ha commentato.
«Sì, ma ha anche aggiunto che “a caval donato non si guarda in bocca”. L'ho incontrato, Cacciari. Mi ha fatto mille domande. Sul piano estetico m'è sembrato meno drastico, ha riconosciuto che si tratta di un fattore soggettivo. Però non crede che Cardin possa riuscire nell'impresa. “Non venderà neppure un appartamento”, ha pronosticato. L'ho riferito allo zio. La risposta è stata: “Vorrà dire che lo farò per tenerlo vuoto. Sempre meglio un unico Palais Lumière a Venezia che cento castelli”».
Che tempi s'è dato Cardin?
«Vorrebbe che il grattacielo fosse finito, al grezzo, entro il maggio 2015».
Ottimista. Per una bricola, uno di quei pali biancoazzurri piantati nell'acqua a Venezia, servono sei anni, l'assenso di 24 uffici, dei quali 11 hanno sede a Roma, e 37 firme.
«Il Palais Lumière dovrà essere pronto per l'inaugurazione dell'Expo di Milano. Un'occasione irripetibile per farlo conoscere al mondo».
Dentro che cosa ci metterete?
«Nella vela grande, 300 appartamenti, dai 50 ai 400 metri quadrati, 24 dei quali con giardino pensile e piscina privata. Nella vela media, 400 uffici. Nella vela piccola, un albergo a cinque stelle con 400 camere e uno a sette stelle con 40. Nel basamento, un auditorium per 7.000 spettatori suddivisibile in otto diverse sale. E poi 10 cinema, 8.000 metri quadrati di centro commerciale, decine di ristoranti, 4.000 posti auto. Uno dei dischi ospiterà l'Università della moda che formerà giovani stilisti. Mio zio s'è riservato un appartamento al 65° piano, “vicino al cielo”, ha sospirato».
A chi spetta l'ultima parola?
«Alla Regione».
Il governatore Luca Zaia che ne pensa?
«È entusiasta. Ha definito lo zio “il nostro Lorenzo il Magnifico”. L'accordo di programma tra Regione Veneto, Comune di Venezia e Concept creatif Pierre Cardin Spa è stato firmato. Chi voleva presentare osservazioni poteva farlo entro lunedì scorso».
Ne sono arrivate?
«Appena 11, mi risulta».
E la soprintendente ai Beni ambientali, Renata Codello, che dirà?
«Ha incontrato mio zio a Palazzo Ducale e ha giudicato l'opera interessante. Ma non è di sua competenza: siamo a Porto Marghera, non a Venezia».
Mi spieghi con precisione dove.
«Su terreni degradati, al 90 per cento occupati da fabbriche chiuse, in parte di proprietà del Comune. Stiamo trattando con 25 soggetti e versando le relative caparre. Mancano all'appello 6 ettari, per i quali c'è un assenso di massima. Se i titolari dovessero esagerare con le richieste economiche, è previsto l'esproprio, visto che si tratta di un'opera d'interesse regionale».
Quale sarebbe l'interesse della Regione?
«Stiamo parlando di circa 11.000 persone impiegate per quattro anni nella costruzione. Una volta completato, il Palais Lumière offrirà 3.000 posti di lavoro diretti e altri 2.000 nell'indotto».
Che cosa le piace di più della creatura concepita da suo zio?
«La forma. Non è stato facile ingegnerizzare un palazzo la cui sommità è più ampia della base. Anche se non sembra, il Palais Lumière è largo quasi quanto è alto, 210 metri. Quindi pesa, per metro quadrato, meno della metà del campanile di San Marco. Alla faccia degli ecoterroristi, secondo i quali farà sprofondare la Laguna veneta».
Chi milita nel partito dei contrari?
«Pochi invidiosi e gli ottimati che non abbiamo interpellato. Mio zio, quando mi vede sconfortato, mi rincuora: “Non temere, ho passato tutta la vita avendo la maggioranza contro”. Persino nella maison parigina siamo solo in due a credere al Palais Lumière: lui e io».
Salvatore Settis ha scritto che con i suoi 250 metri di altezza, «due volte e mezzo il campanile di San Marco», va «110 metri oltre i limiti di sicurezza Enac per il vicino aeroporto» e ha parlato di «ecomostro visibile da ogni angolo della città».
«Falsità, alle quali reagiremo in sede giudiziaria, se dovessero procurarci danni. Dista 9,2 chilometri dal campanile di San Marco, si potrà vedere solo dall'isola della Giudecca e da Sacca Fisola, dove adesso gli abitanti ammirano le ciminiere di Porto Marghera, che fra l'altro sono tre chilometri più vicine a Venezia. Quindi il Palais Lumière in prospettiva apparirà alto come la ciminiera della centrale di Fusina. La quale si trova in pieno cono d'atterraggio degli aerei diretti a Tessera, tanto che l'Ente nazionale per l'aviazione civile ha dovuto concedere una deroga di 30 metri. L'Enac era già pronta a darci il permesso ad agosto. Grazie alla campagna di stampa ostile, ha ricontrollato tutto ben bene e ce l'ha rilasciato il 9 novembre: nessun rischio per i voli. Settis sarà contento».
Si dice che le banche francesi vi abbiano rifiutato un prestito di 40 milioni per oneri che dovevate versare sull'unghia al Comune di Venezia.
«Mio zio non ha mai messo piede in una banca. Poteva arricchirsi giocando in Borsa, come fanno tutti, e invece s'è preoccupato di creare nuovi posti di lavoro. Prima di trasferirsi a Parigi, è stato contabile della Croce rossa a Vichy. Lì ha imparato a fare il ragioniere. S'è sempre autofinanziato. A chi gli suggerisce di non imbarcarsi proprio ora, con la recessione dilagante, in un'avventura come quella del Palais Lumière, replica secco: “Fin da bambino, perciò da quattro generazioni, sento parlare di crisi economica. Io ho sempre creduto solo in me stesso. Le uniche volte che ho sbagliato sono state quando ho seguito i consigli degli altri”. È un imprenditore libero, pronto a dare in garanzia il suo intero patrimonio. La sola residenza di Théoule-sur-Mer è stata valutata 200 milioni da Hsbc, primo istituto di credito europeo».
Qui si parla di 2,45 miliardi.
«Quello è il prezzo finale con arredi e personalizzazioni. Al grezzo il Palais Lumière costa 1,45 miliardi. Che lo zio investe da solo, senza la certezza di alcun ritorno».
L'Académie des inscriptions et belles-lettres di Parigi «si stupisce che dei progetti di architettura sconcertanti e assurdi siano presi in considerazione seriamente».
«Mio zio è ambasciatore onorario dell'Unesco e uno dei 45 componenti a vita dell'Académie des beaux-arts fondata nel 1795, che si riunisce ogni mercoledì. Ha esposto il suo progetto, ricevendo il plauso degli altri accademici. Di solito parla per ultimo. Fa una proposta provocatoria e poi se ne va, lasciandoli a litigare da soli».
Anche Rifondazione comunista è contraria.
«E dire che Cardin disegnò le divise dell'Esercito popolare di liberazione cinese ed è amicissimo di Fidel Castro. Conservo una foto in cui strattona per la cravatta il dittatore cubano».
L'architetto Paolo Portoghesi vi ha bastonato sulle pagine dell'Osservatore Romano, con un articolo in cui ha definito il Palais Lumière «gigante squarciato».
«Strano. Lo zio ha ricevuto dal Vaticano una lettera di lode per la sua iniziativa».
Vaticano suona generico.
«Non sono autorizzato a rivelare l'identità del mittente. La cito solo per far notare che un po' di prudenza nei giudizi, da parte dell'organo ufficioso della Santa Sede, non guasterebbe».
Pure da Vittorio Gregotti, che ha progettato il quartiere Zen, allucinante alveare-dormitorio di Palermo, ci si poteva attendere un po' di prudenza.
«È stata una delusione vedere la sua firma sotto l'appello contro il Palais Lumière rivolto al capo dello Stato. Per mio padre, architetto, più che un collega era un'autorità. Ma penso che Gregotti resterà ancora più deluso nell'apprendere che Giorgio Napolitano ha voluto incontrare Cardin all'hotel Gritti durante una visita a Venezia e l'ha spronato a non arrendersi. Mi sarebbe piaciuto sapere le parole esatte pronunciate dal presidente. Lo zio ha incrociato i due indici davanti alla bocca: “Top secret”. Fra vecchi signori usa così».
Ma allora c'è anche un partito dei favorevoli al grattacielo.
«Sì, e comprende, oltre a Zaia e Orsoni, i presidenti della Provincia, del Consiglio comunale e della Confindustria veneziana. Il ministro dell'Ambiente, Corrado Clini, ha definito l'opera “espressione della bellezza di questo secolo”. Il patriarca Francesco Moraglia l'ha valutata positivamente per le ricadute occupazionali. È pure sorto il Comitato Sì Palais Lumière, che ha raccolto oltre 2.400 firme. Un sondaggio condotto fra i cittadini di Marghera ha rivelato che l'87 per cento è favorevole. Forse perché, come ha osservato Vittorio Sgarbi, è un parafulmine che assorbe la negatività di Porto Marghera. Solo per la bonifica dei terreni abbiamo messo in bilancio 40 milioni».
Il vostro grattacielo sarà il più alto d'Italia, 89 metri e 26 piani più del Palazzo Lombardia voluto da Roberto Formigoni. Non le ricorda un po' la Torre di Babele, che doveva sfiorare il cielo e fu per questo fermata da Dio?
«Mio zio non ha neanche voluto sapere quanti metri misurasse. Gli interessava solo che la forma non venisse intozzita».
Da quanto tempo lavora con Cardin?
«La prima volta che lo incontrai avevo già 26 anni. Doveva ritirare le chiavi della città dal sindaco di Treviso. Mio nonno mi chiese d'essere accompagnato alla premiazione. Salimmo nella camera dell'hotel. Lo zio si stava vestendo. Lui non è un uomo, è uno scanner: mi squadrò da capo a piedi e mi chiese quali Paesi avessi visitato. Figurarsi io, che a quei tempi ero tutto casa, conservatorio e università. Mi magnificò le doti da giramondo dei tre pronipoti parigini. Al che gli risposi: oddio, a viaggiare si fa sempre in tempo, a studiare no».
Chi sono questi ragazzi?
«I pronipoti della sorella Giovannina, detta Janine, morta una decina d'anni fa. Donna d'intelligenza sfolgorante. Vivevano insieme in rue de l'Élysée, dove lo zio risiede tuttora, una strada chiusa, presidiata dalla polizia. Due numeri più avanti c'è la casa della baronessa Nadine de Rothschild. Nessun altro. Il resto della via è occupato dagli uffici della presidenza della Repubblica».
Che cos'è per lei Venezia?
«Un gioiello».
E per suo zio?
«La città più bella del mondo».
Perché lei non s'è trasferito a Parigi?
«Non riuscirei a staccarmi dalla mia terra. I veneti sono speciali. Se gli proponi il progetto più audace, la prima risposta è: “Sì”. Il giorno dopo magari ti chiedono: “E come facciamo?”. Ma intanto cominciano a lavorare. Mio zio pratica la stessa religione. “Lavoro, lavoro, lavoro”, ripete sempre. E aggiunge: “Di notte non si dorme: si pensa e si crea. Di giorno si realizza”. A 90 anni arriva ancora per primo in atelier, alle 7. Al distributore automatico miscela mezzo caffè con mezza cioccolata, una sua ricetta che gli evita l'acidità di stomaco. Poi comincia a esaminare i disegni dei creativi. Cancella, corregge, taglia, cuce. Lo trovi lì anche il sabato e la domenica a farsi le pulizie da solo».
Le pulizie?
«Nessuno può mettere le mani nel suo ufficio. Ieri (martedì scorso, ndr) è caduto, procurandosi un taglio alla gamba, ma s'è fatto accompagnare in ospedale dall'autista soltanto a tarda sera, dopo aver finito il lavoro. Un 1° maggio, assenti gli operai, andò a sgobbare nel castello di Lacoste, che era in restauro. Precipitò da una scala, procurandosi ferite e fratture. Se non fosse stato per un passante, sarebbe morto così, di lavoro nella festa del lavoro. La sua festa».
Pierre Cardin parla in veneto?
«Poco, ma lo capisce benissimo. Le critiche al Palais Lumière le ha liquidate così: “Xe solo ciàcole”. E va pazzo per le schie (gamberetti tipici della Laguna, ndr) con la polenta».
È vero che appena arrivato a Parigi, nel 1945, voleva fare l'attore?
«Sì, ma si stufò dopo aver passato parecchi mesi inoperosi in Brasile sul set di Joanna la francese, in cui recitava con Jeanne Moreau. Con Marlene Dietrich, sei mesi prima che l'angelo azzurro morisse, stava per creare un profumo».
Chi è lo stilista italiano più apprezzato da suo zio?
«Giorgio Armani. È l'unico a mandargli un biglietto d'auguri scritto a mano il 2 luglio, giorno del compleanno. Di solito gli altri si fanno vivi il 7, perché consultano il sito italiano di Wikipedia, dove la data di nascita è sbagliata. Quando lo scorso dicembre alla Fenice di Venezia hanno consegnato a Cardin il Leone d'oro, in camerino è arrivato un mazzo di rose bianche inviato da Armani».
Suo zio ha qualche rimpianto?
«Solo una volta l'ho sentito dispiacersi per non aver avuto un erede vero: il figlio che la Moreau stava per dargli ma che purtroppo perse».
Pensa che Pierre Cardin un giorno vorrà essere sepolto al Père Lachais di Parigi o sull'isola di San Michele a Venezia?
«La domanda non è d'attualità. Mio zio si considera immortale».
(634. Continua)
stefano.

lorenzetto@ilgiornale.it

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