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Ora per il Pd l’impresentabile è Pier Luigi

Il segretario sconfessato anche dai suoi

Ora per il Pd l’impresentabile è Pier Luigi

Defenestrato? Sì, ma i danni restano. Bersani per troppo tempo ha ingabbiato un partito che si vantava di non avere capi ingombranti, di scegliere tutto con le primarie, di rinnegare la politica ad personam. Invece siamo stati tutti qui a perdere tempo, condividendo da italiani il destino del Pd, solo per le ambizioni personali di un signore che voleva sedersi a Palazzo Chigi senza avere i numeri.

Lo sapevano bene anche nel Pd. Bersani era una mozzarella scaduta, un ingombro, una zavorra, un vuoto a perdere. Hanno lasciato che facesse le sue retoriche consultazioni con le parti sociali, utili solo a fare melina in attesa di un miracolo, mentre tutti, a partire dal presidente della Repubblica, gli chiedevano numeri. E lui, l'uomo di Bettola, incaponito ad andare avanti al di là di ogni ragionevole dubbio. Per rimuoverlo c'è stato bisogno di un atto di forza. Ieri Franceschini ed Enrico Letta gli hanno detto a brutto muso che così non si poteva andare avanti e, forti anche delle pressioni di Napolitano, hanno preso in mano la situazione. Ora il tempo è davvero poco. I mercati sono pronti a punire l'Italia appena riaprono le borse, ma c'è lo spazio proprio per il tentativo disperato e si spera efficace di Napolitano. Il ruolo finale spetta, infatti, a lui, che è stato il grande avversario di Bersani, che a un certo punto sembrava un dirottatore o un sabotatore poco lucido.

Ma quello che resta sono gli alibi e le contraddizioni che il Pd si è costruito per dare retta al suo segretario. Un costo che gli italiani pagheranno. Bersani in campagna elettorale continuava a ripetere che il suo partito non aveva un nome sul simbolo, salvo poi sequestrare il partito e comportarsi peggio che se fosse cosa sua. Diceva che anche con una vittoria del 50 per cento più uno avrebbe dialogato con l'opposizione. Non solo di fatto non ha vinto, ma ha occupato di forza tutte le poltrone in circolazione, ripetendo all'infinito che per lui il Pdl non esiste, non lo vede, non lo calcola.

Quello che è successo dopo è ancora più grottesco. Quando ha capito che Grillo parla un'altra lingua, ha cominciato a pretendere che il Pdl lo aiutasse a far partire il suo governo di otto punti, disegnati su misura per sedurre i Cinquestelle. Berlusconi ha aperto il dialogo. Ma il senso della risposta di Bersani è stato più o meno questo: non ci siamo capiti, tu ci dai i voti per governare e poi noi ci liberiamo di te, ti buttiamo fuori dalla vita pubblica con un certificato eterno di impresentabilità. Quando il Cavaliere gli ha detto che non solo non ha questa vocazione al suicidio, ma gli sembrava una presa assurda per i fondelli, il premier ipotetico ha replicato stizzito che lui non scherza mai. E si è pure incavolato. Si è lamentato. Ha messo il muso. Come se gli avessero tolto un diritto palese a governare, acquistato non per i numeri, ma per aver tentato di smacchiare il giaguaro. Così a sinistra, e sui quotidiani dei salotti buoni, si sono inventati una teoria ancora più ridicola. Perché l'Italia non riesce ad avere un governo? La colpa non è mica dell'ostinazione ambiziosa di Bersani, no, per niente, il responsabile di tutto questo è un altro, sempre lui, sempre lo stesso. La colpa è di Berlusconi. È lui che con la sola presenza non permette a Bersani di stringere patti con gli impresentabili. È lui che continua a prendere voti quando ormai si pensava di averlo sotterrato.

È lui che si ribella alla prima regola della democrazia secondo la sinistra: il suffragio universale è legittimo solo quando vinciamo noi. È lui che non solo si rifiuta di andare subito in carcere, ma non va neppure in esilio. È lui la maledizione della sinistra.

Lui, il Cavaliere, e tutti quelli che lo votano. È per questo che Bersani ha pensato davvero di poter governare. Gli hanno fatto credere che i voti di destra in Parlamento non hanno voce in capitolo. E solo adesso ha capito perché Napolitano continua a contarli.

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