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La mia ultima cena con Gardini

Di Pietro si lava la coscienza. Ma quel colpo alla tempia fu tutt’altro che un suicidio d’istinto. Il carcere gli faceva più paura della morte. Vi spiego perché

La mia ultima cena con Gardini

Ieri, mentre leggevo l'intervista su Raul Gardini rilasciata da Antonio Di Pietro ad Aldo Cazzullo per il Corriere della sera, la memoria, non troppo arrugginita, mi ha restituito ricordi abbastanza nitidi sulle 36 ore che precedettero il suicidio dell'imprenditore, risalente alla mattina del 23 luglio 1993, vent'anni orsono, in piena buriana di Tangentopoli. Il numero uno di Mani pulite nonché fondatore di Italia dei valori, recentemente tornato al lavoro dei campi non per imitare Cincinnato ma perché costrettovi dalla mancata rielezione in Parlamento alle ultime consultazioni (24-25 febbraio scorso), afferma che l'allora padrone della chimica nazionale si sparò alla tempia, togliendosi la vita all'istante, «in un moto d'impeto non preordinato coerente con il personaggio, che era lucido, razionale, coraggioso».

Insomma, un suicidio d'istinto, dettato dalla consapevolezza che quella stessa mattina, dovendosi recare in Procura per essere interrogato sulla madre di tutte le stecche (Enimont), probabilmente sarebbe stato arrestato e incarcerato. Come tanti prima di lui. Non mi permetterei mai di contraddire l'ex Pm a riguardo dell'inchiesta, dato che era materia sua, mentre io ne raccontavo gli sviluppi col distacco tipico di chi è chiamato soltanto a riferire; tuttavia posso testimoniare che, invece, Gardini non premette il grilletto così, all'improvviso, in un momento di disperazione, ma dopo avere covato il proposito relativamente a lungo: minimo 36 ore, come dicevo sopra.

Spiego perché. La sera del 21 luglio cenai con lui nella sua casa di piazza Belgioioso (vicino a piazza Meda, dove c'è il Disco dello scultore Arnaldo Pomodoro). Ignoravo e ancora ignoro il motivo per il quale mi avesse invitato. Fui sorpreso, ma accettai la sua proposta senza pormi problemi: non volevo essere scortese con un uomo che, oltretutto, era stato fra gli azionisti del giornale che dirigevo a quel tempo, L'Indipendente, quotidiano dedito alla narrazione dei fatti prodromici alla caduta della Prima Repubblica. All'ora convenuta, le 20.30, mi presentai davanti al portone dell'elegante palazzo. Mi ricevette un garbato signore, suppongo il maggiordomo, che mi introdusse nell'austera dimora. Fui fatto accomodare in un salotto e attesi. Ero un po' agitato, anche perché non conoscevo l'ospite illustre. D'altronde, si prova un certo imbarazzo nell'incontrare un potente mai frequentato in precedenza, specialmente quando non sai che cosa si aspetti da te.

Trascorsi alcuni minuti, il magnate si appalesò: abito grigio antracite, capelli bianchi, espressione severa. Dopo i soliti convenevoli - stretta di mano, come sta?, bene grazie, e lei? - si sedette di fronte a me, ma aprì bocca soltanto per ordinare al cameriere di servire l'aperitivo: champagne Veuve Clicquot. Scuro in volto come uno cui sia stato diagnosticato un cancro che non perdona, Gardini bevve un sorso, deglutì e si accese una Muratti Ambassador. Gli chiesi se potessi fare altrettanto. Con la sigaretta tra le labbra mi illudevo di recuperare disinvoltura. Trovai soltanto il coraggio di rompere il silenzio di tomba, rivolgendogli la domanda più cretina in quella circostanza surreale: «Che ne dice, presidente, di questa mattanza di politici e imprenditori?».

Tirò un sospiro, aspirò del fumo in abbondanza, poi sconsolato osservò: «Speravo fosse lei a darmi qualche notizia». Risposi in automatico: «Tutto quello che so l'ho scritto. Ma ogni giorno ce n'è una nuova. Ormai i cancelli di San Vittore sono girevoli, purtroppo solo in entrata, come le porte degli alberghi». Il suo commento fu molto sintetico: «Già». Per fortuna si inserì il cameriere con una variante alla stringata conversazione: «Se lo desiderano, prego, la cena è pronta». Gardini si alzò e mi indicò la sala da pranzo. Con sgomento constatai che la tavola era apparecchiata per due, dal che ebbi a desumere che per un'oretta, forse di più, sarei stato costretto, senza l'ausilio di altri commensali, a escogitare un espediente per sciogliere il rigidissimo padrone di casa.

Provai in ogni modo a stimolare il suo interesse. Non ci fu verso di fargli cambiare espressione: occhi fissi sulla minestrina di alta cucina ospedaliera, la mano destra impegnata col cucchiaio, le dita della sinistra che stringevano la sigaretta come fosse l'ultima, quella di un condannato a morte. Gardini sorbiva un po' di brodino e fumava; ogni tre cucchiaiate e due boccate, beveva champagne. Parole, zero. Un incubo. Non comprendevo il senso di quella serata. Perché mi avrà invitato qui per non dirmi niente?, mi domandavo.

Di sottecchi controllavo l'orologio: le lancette sembravano paralizzate. Ero infastidito oltre che stupito. In un obitorio ci sarebbe stata un'atmosfera più serena che in quella sala da pranzo. Per adeguarmi ai ritmi del padrone di casa, bruciai una sigaretta dietro l'altra. Ero al corrente che Gardini non stava messo bene: le voci di un suo probabile arresto circolavano da settimane. Per cui non mi fu difficile intuire da che cosa dipendesse il suo umore tetro. Rimaneva un mistero: perché convocarmi al suo desco? Forse pretendeva da me qualche dritta. Avendogli però detto, non appena giunto in piazza Belgioioso, che non avevo informazioni fresche, egli si rese conto dell'inutilità della mia presenza, e sprofondò nei suoi cupi pensieri.

L'ipotesi di spararsi non credo gli piacesse, ma gli piaceva ancora meno, evidentemente, quella di subire l'umiliazione del carcere. Mai suicidio fu più meditato, altro che «moto d'impeto». Di Pietro non deve pentirsi di non avere arrestato Gardini prima che questi ponesse fine ai suoi giorni. Un Pm fa il suo mestiere secondo coscienza, se ce l'ha, altrimenti rischia di usare la custodia cautelare (che espressione gentile, ma la galera è galera) quale scorciatoia per arrivare subito al nocciolo: la confessione. Il sistema è efficace, indubbiamente, ma può provocare disastri.

E infatti seguita a provocarne.

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