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A Bellagio, dove il turismo salva l'arte

A Bellagio, dove il turismo salva l'arte

di A Bellagio, sul Lago di Como, si arriva per la delizia del lago, un approdo internazionale, di cui restano testimonianze e vestigia. Un albergo fu meta di turismo internazionale, il Grande Bretagne. L'albergo è oggi abbandonato, uno scenario dolente di fantasmi. Vivendo poco lontano, a Cernobbio, Luchino Visconti, ne aveva perfetta coscienza avendone visto festa e decadenza. Ne affida il referto a Nadia in Rocco e i suoi fratelli, nel 1960; «Come che cos'è? È un albergo. Ma un albergo al bacio caro mio... Guarda, si chiama Gran Bretagna: vedi, una volta ci venivano molti turisti inglesi a Bellagio, adesso non ci viene più nessuno. Sì, oggi c'è gente perché è giorno di Pasqua, sennò... deve avere sulle 100, 150 stanze».
Il Grande Bretagne è chiuso, ma Bellagio ha ripreso la sua animata vita turistica. L'assessore al Turismo è proprietario di un albergo, davanti al lago, arredato con gusto e misura; e, poco più in alto, c'è un altro grande albergo: Villa Serbelloni, con stanze regali, arredate con grande gusto. I proprietari hanno arricchito gli ambienti con una collezione di arte del Novecento: Sironi, De Pisis, Funi, Badodi, Tomea, Tosi, nei salotti; e, nel salone, due quadri genovesi del Seicento nell'ambito del Grechetto. Ma la maggiore sorpresa è nei corridoi che portano alle camere dove è ospitato il più vasto e poetico ciclo del più notevole pittore sardo del Novecento, Giuseppe Biasi di Teulada. Un'intera serie che mostra la Processione di un matrimonio, con costumi e riti della tradizione, la sposa, le cavalcate e gli interni delle case.
In un pannello, la chiave appesa a un chiodo su un muro, evoca poeticamente la prima notte di nozze, con l'apertura di una porta, a indicare il passaggio da una condizione all'altra, dalla verginità al congiungimento. È sorprendente vedere il mondo remoto della Sardegna trasferito sulle rive del lago, con l'intatta e integra poesia di quei sentimenti e di quelle tradizioni, animati da musici festosi. È una delle tante e preziose scoperte su questa riva del lago, e una ragione più forte per tornarci. Ma nei tanti passaggi, anche l'ultima volta, mi attendeva una imprevedibile scoperta. Venivo dal Castello di Miradolo, vicino a Pinerolo, dove stavano devotamente raccolte le tele dipinte nel convento di Moncalvo da Suor Orsola Maddalena Caccia: madonne senza tempo, e angeli festosi nella luce divina. Della realtà l'attraevano le più varie specie di fiori, vero paradiso terrestre, per accogliere quelle presenze celesti.
Così, entrando nella chiesa di San Giacomo a Borgo, restituita allo stile romanico, insieme ai dipinti segnalati, stava nascosta una Madonna con il bambino di Suor Orsola, dono di una coppia di sposi alla chiesa dei loro incontri romantici. Un'opera dimenticata, ma intensamente spirituale, come la fede incorruttibile della pittrice. E, negli incroci del caso, proprio a Bellagio, passeggiando nelle strade medievali, mi aspettavano, in un negozio di oggetti d'arte, alcune sculture di un maestro amato, e già due volte ricordato in questo viaggio: Giuseppe Gorni di Quistello, lo scultore padano per eccellenza, innamorato del mondo e della vita contadini, e interprete di una realtà povera e dignitosa. Gli eredi dell'artista avevano lasciato alcuni bronzi in quella galleria, nella stessa strada in cui, con ulteriore sorpresa, sentivo le note di Liszt, ispirato da Dante, composte ed eseguite proprio a Bellagio. Non sarebbe stata una coincidenza, se negli ultimi anni non avessi interpretato quei versi accompagnato al pianoforte da Nazzareno Carusi, desideroso di risalire alla ispirazione prima del musicista, maturata proprio a Bellagio.
E così, di occasione in occasione, dopo vent'anni, sono tornato a Villa Melzi d'Eril. Ero stato chiamato dal Conte Gallarati Scotti, turbato per l'ipotesi che nel suo giardino, il più vasto e più bello, tra quelli delle varie ville che si affacciano sul lago, fosse fatta passare una discarica. Andai e vidi l'edificio integro, nel parco più incontaminato che si potesse desiderare. E, dopo alcuni interventi, il pericolo fu scongiurato. Ne derivò un rapporto con il Conte, che ha l'età di mio padre, che è rimasto intatto nella memoria. Ricordavo un suo giovane figlio, pieno di vitalità e di entusiasmo, che ho ritrovato fedele custode e interprete del pensiero e del desiderio del padre.
La conservazione di Villa Melzi d'Eril è un esempio di come dovrebbe essere l'Italia in un felice rapporto fra pubblico e privato, nella più alta e responsabile coscienza dello Stato. Si esce dalla vita quotidiana e si entra in una dimensione incantata. Sulla sponda occidentale di quella penisola del lago che lo divide dal ramo di Lecco, il Duca Francesco Melzi fece costruire la villa fra il 1808 e il 1810. Il progetto è di Giocondo Albertolli, che disegnò piuttosto un palazzo che una villa, con la fronte rivolta al lago, su un terrapieno artificiale, davanti alla collina. Si entra nella villa attraverso un'ampia gradinata, fiancheggiata da due leoni. Il giardino si estende lungo la riva del lago e dietro il palazzo, a terrazze, verso la collina. Viali e sentieri lo attraversano in un disegno lineare, tra piante e alberi che accompagnano con le loro forme morbide la massa imponente dell'architettura.
Anche la decorazione all'interno e le collezioni sono conservate: il grande salone d'onore, la sala di Napoleone e di Francesco Melzi con i ritratti di Andrea Appiani, la stanza dei paesaggi che porta alla sala da pranzo da cui si accede alla galleria delle sculture. Dal salone d'onore si passa alla sala dei dipinti fiamminghi e alla piccola biblioteca. Meravigliosi i camini in marmo di Carrara. E preziosa la biblioteca al piano sottostante, con le librerie ottocentesche disegnate dall'Albertolli. Uscendo dalla villa, all'estremità del giardino, vediamo la cappella gentilizia, disegnata dallo stesso Albertolli con il pronao palladiano. All'interno la scultura del Redentore, appoggiato alla croce, di Giovanni Battista Comolli, e i quattro angeli di Pompeo Marchesi. Ma memorabili sono la lunetta sopra la porta d'ingresso con la Madonna e il bambino, San Bernardo e un altro santo di Giuseppe Bossi, cui si deve anche il cartone con la Pietà nella sacrestia. Sono le ultime opere del grande artista accademico che, malato, veniva sul lago, nella villa di Bellagio, a cercare conforto. Tra i monumenti funebri si segnala la tomba del Duca Ludovico Melzi d'Eril di Vincenzo Vela, compiuta in forme neorinascimentali nel 1890.
Uscendo dalla cappella, si arriva a una locanda e a un edificio cinquecentesco davanti a un porticciolo pittoresco, con le stesse barche descritte dal Manzoni ne I Promessi Sposi. Tutto è fermo nel tempo. Da lì parte una lunga scalinata che conduce alla Villa Giulia, da cui si dominano i due laghi di Como e di Lecco, da un punto di osservazione paradisiaco. All'orizzonte si vede anche la tenuta ampia, degradante sul colle, dalla chiesa al palazzo, della Fondazione Rockefeller che acquistò questa proprietà Serbelloni Turn und Taxis per istituirvi un Centro internazionale d'incontri, di ricerche, di convegni, nella consapevolezza del privilegio di una posizione naturale dove le idee e i pensieri si perfezionano, nella luce di una eterna primavera.

Anche questo è Bellagio.

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