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La Cassazione conferma: due anni di interdizione a Berlusconi

La Cassazione conferma l'interdizione dai pubblici uffici: per due anni Berlusconi non potrà candidarsi né votare. La pena accessoria è ora immediatamente esecutiva. Adesso il Cav si giocherà la carta del ricorso alla Corte europea di Strasburgo

La Cassazione conferma: due anni di interdizione a Berlusconi

Tutto come previsto. La Cassazione scrive l'ennesimo capitolo di una persecuzione giudiziaria che non ha fine. Dopo una camera di consiglio di oltre sei ore, la terza sezione penale della Suprema Corte ha confermato definitivamente la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici per due anni nei confronti di Silvio Berlusconi nel processo Mediaset. L’ex premier era già stato condannato con sentenza irrevocabile per frode fiscale alla pena principale di quattro anni di reclusione, tre dei quali sono coperti da indulto. Adesso il Cavaliere si giocherà la carta del ricorso alla Corte europea di Strasburgo.

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso presentato dalla difesa di Berlusconi contro la sentenza della corte d’appello di Milano che il 19 ottobre fissò a due anni il periodo di interdizione. I giudici di piazza Cavour hanno dichiarato irrilevanti le questioni di legittimità costituzionale sollevate dagli avvocati Coppi e Ghedini. I due anni di interdizione sono la pena accessoria collegata alla condanna, divenuta definitiva il primo agosto scorso, a quattro anni di reclusione per frode fiscale comminata al leader di Forza Italia nell’ambito del processo Mediaset. "Avremmo ritenuto quantomeno necessario un approfondimento presso la Corte europea di Strasburgo", ha commentato Ghedini prendendo atto "con grande amarezza" della decisione della La Cassazione, confermando la condanna, lo scorso agosto aveva annullato con rinvio la prima sentenza di appello limitatamente al periodo di interdizione che i giudici del merito avevano inizialmente fissato a cinque anni. Nelle motivazioni la Cassazione aveva spiegato che il periodo di cinque anni era risultato da un calcolo errato, per cui aveva ordinato ai magistrati milanesi di ripronunciarsi sulla pena accessoria

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