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Così si decapita la democrazia

Un uomo politico è stato fatto fuori con una sentenza anziché con il voto: i pm hanno un potere illimitato

Così si decapita la democrazia

Fino all'ultimo non ci avevamo creduto. Pensavamo fosse impossibile che si potesse far secco un uomo politico con una sentenza anziché col voto popolare. E invece è successo proprio questo: Silvio Berlusconi è stato fatto fuori; non potrà più mettere piede in Parlamento. Non solo perché la pena accessoria (interdizione dai pubblici uffici) glielo vieta per un periodo ancora da stabilirsi, ma anche perché esiste una legge, paradossalmente voluta dal centrodestra, secondo la quale chi ha subìto una condanna superiore a due anni di carcere non ha facoltà di presentarsi candidato alla Camera o al Senato.
Peggior disastro era inimmaginabile. Anzi, si supponeva che il terzo grado di giudizio agisse con mano più leggera rispetto all'appello e trovasse il modo per salvare capra e cavoli. Dove per capra si intende la dignità della giustizia, che aveva infierito sull'imputato eccellente, e per cavoli si intende l'equilibrio politico che la maggioranza cosiddetta delle larghe intese garantiva all'Italia, sostenendo il governo guidato da Enrico Letta e tenuto a battesimo dal presidente Giorgio Napolitano. Non è stato così.
I giudici della Corte di Cassazione, nonostante la difesa brillante dell'avvocato Franco Coppi, affiancato dal collega Niccolò Ghedini, hanno preferito confermare il verdetto infausto che costringe il fondatore di Forza Italia e del Popolo della libertà ad arrendersi. Non è questa la sede più adatta per entrare nel merito delle accuse rivolte al proprietario di Mediaset nonché capo carismatico del Pdl. Ci limitiamo a valutare le conseguenze della sentenza. Che sono terribili per il nostro Paese.
L'eliminazione diremmo fisica di un soggetto politico importante, quale è (era) il Cavaliere, per via giudiziaria, costituisce un precedente che fa venire i brividi: la democrazia è stata per la prima volta decapitata in un tribunale. Un fatto inedito e gravissimo che segna l'inizio, probabilmente, di un'era in cui l'esito della lotta politica non sarà più determinato dal consenso popolare, bensì dalle toghe cui gli stessi politici hanno consegnato poteri illimitati, illudendosi di trarne chissà quali vantaggi. Ci riferiamo alla rinuncia avvenuta vent'anni orsono, da parte dei deputati e dei senatori, dell'immunità parlamentare che i padri costituenti avevano introdotto nella Carta allo scopo di tutelare gli eletti nella loro libertà e indipendenza, anche dalla magistratura.
Abolita l'immunità, i parlamentari si sono esposti all'azione penale obbligatoria col risultato che qualunque sostituto procuratore può aprire un'inchiesta e portarla a compimento contro chi sia stato prescelto dai cittadini e ne abbia ricevuto il mandato di rappresentarli alla Camera o in Senato. Se poi aggiungiamo che, nel periodo di Tangentopoli e Mani pulite, si è creata una strana alleanza tra sinistra e alcune toghe, si comprende il motivo per il quale vari magistrati hanno dato l'impressione, col loro lavoro, di favorire un partito danneggiandone altri.
Naturalmente, queste sono chiacchiere, il cui senso molti non condividono. Rimane il fatto storico che Berlusconi, da quando ha smesso di fare l'imprenditore e si è gettato nell'agone politico, non ha più avuto pace. I suoi guai giudiziari cominciarono infatti nel 1994, subito dopo aver vinto le elezioni nazionali. Decine di processi, accuse d'ogni tipo, perquisizioni, controlli. Mediaset non ha mai più avuto requie. E il suo principale azionista, il Cavaliere, ha trascorso più tempo a difendersi che non a curare gli interessi degli italiani che governava o che rappresentava all'opposizione. Un fenomeno mai visto, al quale tuttavia ci eravamo abituati.
A un certo punto, Berlusconi indagato o processato non faceva più notizia. Era una consuetudine. Tant'è che nessuno immaginava che egli potesse essere condannato. Anche ieri, in attesa del verdetto della Cassazione, eravamo tutti tranquilli: non lo condanneranno mai. La nostra fantasia, pur fervida, non contemplava l'ex premier privato della libertà personale. Viceversa, è successo anche questo: in galera. O ai domiciliari. O ai servizi sociali. Non sono i dettagli che contano ma la liquidazione di un personaggio con le maniere forti. Quelle della legge. Che non si discute. Chissà perché, poi, una sentenza emessa in nome del popolo italiano non può essere discussa, ma solamente rispettata. C'è qualcosa di abnorme, di assurdo.
Quale futuro ci attende? Non lo sappiamo. Sappiamo però che stiamo sprofondando. E la chiamano giustizia.

segue a pagina 7

di Vittorio Feltri

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