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La fine di Fini in diretta: così sprofonda un leader

Balbetta, fa confusione e nega l'evidenza: l'esecuzione di Santoro manda ko l'eterno delfino che voleva fare il premier. Il colpo di grazia? La figuraccia su Dell'Utri

La fine di Fini in diretta: così sprofonda un leader

Qualcuno salvi il colonnello Fini. Lo tiri via dall'arena politica, lo riporti a casa, sua, non a Montecarlo. Vederlo barcollare in quel modo, inerme, come un pugile ormai andato, che si aggrappa alle corde solo con la speranza di sopravvivere e stravaccarsi sulla vecchia poltrona è un'immagine impietosa. Eppure quest'uomo un tempo aveva ambizioni da campione, da sfidante ufficiale, dopo una vita da delfino, cresciuto per ereditare qualcosa d'importante, un posto da presidente del Consiglio con la cravatta giusta e un vestito già ordinato in sartoria.
Non ne è rimasto nulla. È invecchiato di anni, il volto straziato, gli occhiali troppo grandi sul profilo sempre più magro, gli occhi che si abbassano ad ogni colpo e la sua oratoria che pattina sul vuoto, su qualsiasi argomento, tanto da far apparire Salvini come un erede di Demostene. Vederlo così, l'altra sera da Santoro, è stato straziante. Ti veniva quasi da dire basta. Basta con questa macelleria. Basta sorridergli e poi colpirlo un'altra volta. Gettate la spugna. Come quando ha rimproverato a una sua vecchia conoscenza la coerenza: «Fai sulle banche gli stessi discorsi di trent'anni fa». Appunto. Tanto che lo stesso Santoro a un certo punto deve averlo graziato, risparmiandogli la domanda sull'argomento di giornata, quei rapporti da chiarire con Francesco Corallo, il latitante re dei videopoker, l'uomo nero di Montecarlo. Come mai il passaporto della compagna e del famoso cognato, al secolo Elisabetta e Giancarlo Tulliani, sono stati trovati a casa di Corallo? In diretta su Twitter, come spettatori a bordo ring, in tanti gridavano: «Corallo, Corallo, neppure una domanda su Corallo».
Santoro per fortuna non li ha sentiti, non ha visto, non li ha voluti ascoltare. Non serviva. Solo Travaglio si divertiva, quasi per prendersi una rivincita del match con Berlusconi della settimana prima, continuava a ballargli intorno e a toccare, atterrandolo semplicemente leggendo la «cronistoria di una vita», la sua, quella di Gianfranco. Una rivincita per interposta persona. Una cosa infatti a un certo punto si è capita a pelle. Questa puntata di Servizio pubblico stava cominciando a assomigliare alla morte, politica, in diretta di Gianfranco Fini. La sua uscita di scena pubblica. La costatazione che quello che stava parlando era ormai un altro, uno sopravvissuto al suo passato e che dopo il «che fai mi cacci?» ha sbagliato tutte le mosse. Quello che si immaginava come una sorta di Bruto, un liberatore, è apparso come un poveretto interessato soltanto al suo piccolo tornaconto politico. Quello che doveva creare un'alternativa a destra e ora corre per racimolare un posto in Parlamento, il suo. Fini troppo piccolo per le sue ambizioni. Fini che si è fidato delle lodi che arrivavano a sinistra, per poi essere buttato via come un fazzoletto usato. Fini ruota di scorta di Monti, accettato per misericordia e con molti dubbi. Fini capolista di un partito che i sondaggi danno all'uno per cento, con il rischio che se a Casini va male, cioè finisce sotto la soglia del 4, a Fini non resta neppure la consolazione personale di un seggio in Parlamento.
Tutto questo è già un de profundis politico. E poi arriva il Ko simbolico. Quello che Santoro gli ha cucinato con una certa perfidia. Fini ha appena finito di deplorare e lamentarsi del berlusconismo, delle liste del Pdl, di questo e quell'impresentabile. Stop. Santoro chiama un video. È un elogio appassionato di Fini per Marcello Dell'Utri. Non dura molto. Fini è bianco. Dice: «È una cosa vecchia, risale a quando non c'erano indagini su Dell'Utri. Vedete, avevo ancora i capelli neri». Si scusa. Ripudia. Travaglio dice che non gli sembra tanto vecchio, il discorso. Fini insiste. Ma alla fine ha ragione Travaglio. È di qualche anno fa, quando Dell'Utri era già inquisito. Fini barcolla. È a terra e non parla più. Si sente solo l'arbitro che conta: uno, due, tre, quattro... nove, dieci.

Finito.

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