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Quella barbarie delle manette facili

Indagare su Scajola è lecito ma metterlo dentro è barbarie

Quella barbarie delle manette facili

Era scontato che la Cassazione confermasse la condanna a 7 anni per Marcello Dell'Utri, attualmente a Beirut, piantonato in un ospedale. Certi verdetti, anche se non si possono sapere in anticipo, si annusano. Evidentemente lo stesso Dell'Utri aveva subodorato che gli avrebbero inflitto una pena pesante, tant'è che, in attesa di conoscere il proprio destino, si era trasferito in Libano, le cui autorità ora decideranno se concedere l'estradizione. Il che non è automatico, poiché in quel Paese il reato di concorso esterno in associazione mafiosa non c'è e sarebbe una forzatura se esse, nonostante ciò, si piegassero alla richiesta italiana di rimandare in patria l'ex senatore del Pdl. In questi casi può succedere di tutto.
Non siamo in grado di stabilire se Dell'Utri sia colpevole o innocente: la sua vicenda è talmente complicata anche per gli esperti di diritto, figuriamoci per noi semplici orecchianti. Se però consideriamo che i magistrati per arrivare alla sentenza definitiva hanno impiegato la bellezza di 20 anni, sorge il sospetto che i giudici abbiano faticato a capirci qualcosa. Insomma, la sensazione è che le accuse rivolte all'imputato non fossero poi così nette e sostenute da prove inoppugnabili.
Pare che un processo durato quattro lustri meriti una citazione nel Guinness dei primati, essendo peraltro dimostrativo dell'inaffidabilità della nostra Giustizia, notoriamente bisognosa di urgente riforma, non solo perché lenta, ma pure incapace di apparire credibile. Il problema va oltre la tardiva e controversa condanna del cofondatore di Forza Italia. Come si fa a ostinarsi a tenere in piedi un sistema giudiziario barocco e farraginoso quale il nostro, che per giudicare una persona cui si attribuisce un reato le ruba preventivamente 20 anni di vita, costringendola a saltabeccare da un tribunale all'altro, a campare col cuore in gola per il terrore di essere imprigionata, a pagare parcelle su parcelle agli avvocati, ammesso che abbia i mezzi per saldarle? Non è già questa una pena dolorosa?
Nossignori. A un certo punto, quando tale persona è stata distrutta nel morale e nel fisico, si trova a dover scontare 7 anni di galera. E ci si stupisce se taglia la corda e si rifugia in Medio Oriente allo scopo di non trascorrere gli ultimi sgoccioli di esistenza dietro le sbarre? È più scandalosa la fuga o la lungaggine mostruosa dei procedimenti che l'ha provocata? Domanda: se un giudizio si trascina per 20 anni, quanti secoli ci vorranno ancora per correggere i vizi e le storture della cosiddetta giustizia?
In questi giorni campeggia sui giornali un'altra notizia di genere affine a quella che abbiamo esaminato sopra: l'arresto dell'ex ministro Claudio Scajola, accusato di aver ordito un piano finalizzato a consentire ad Amedeo Matacena di nascondersi all'estero, infischiandosene di una condanna definitiva (5 anni di carcere) per il solito concorso esterno in associazione mafiosa. Scajola, passato alla storia per la famosa casa ricevuta in dono a «sua insaputa» (assolto), sarebbe stato inchiodato da intercettazioni telefoniche (più ambigue che schiaccianti). Ovvio. Occorre fare chiarezza. Ed è ciò che i Pm tentano lodevolmente di fare.
Ma qualcuno ci spiega dove sia la necessità di trattenere in cella uno le cui malefatte non sono ancora state verificate? In circostanze simili, la risposta è la seguente: pericolo di fuga, di inquinamento delle prove e di reiterazione del reato. Scusate. Il pericolo di fuga, come insegna l'esperienza, si presenta nel momento in cui scatta la sentenza definitiva, non durante l'indagine, altrimenti l'ex ministro sarebbe scappato anche quando era in corso l'inchiesta sulla casa. L'inquinamento delle prove è impossibile se è vero che esse sono contenute nelle intercettazioni telefoniche acquisite dal Pm. Infine, la reiterazione del reato, nella fattispecie, è improbabile a meno che Scajola non abbia cambiato mestiere e aperto un ufficio per l'espatrio dei pregiudicati. Altamente improbabile.
Pertanto, i domiciliari sarebbero stati più che sufficienti. Senza contare che se il nostro tornasse a piede libero non avrebbe molte opportunità per intralciare le investigazioni.

Non sarà che inconsciamente alcuni magistrati siano animati da una volontà punitiva insopprimibile per cui in dubio pro manette? C'è di che turbarsi.

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