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L'Italia resta un inferno per chi vuol darsi da fare

D'accordo che il comunismo ha fallito e gli stessi comunisti si vergognano di esserlo stati, ma la mentalità pauperistica è rimasta e non ha cessato di provocare danni

L'Italia resta un inferno per chi vuol darsi da fare

Il Giornale ha già dato la notizia ieri per la penna di Nicola Porro, ma vale la pena di tornarci su. Mi riferisco alla retrocessione dell'Italia, nella classifica mondiale dei Paesi industriali, all'ottavo posto, superata anche dal Brasile. Segnalo che in questa graduatoria speciale fino a sei anni orsono eravamo quinti. Nei salti all'indietro, come si vede, facciamo faville. Ma è da ingenui stupirsi, come lo è - da parte dei politici - sperare in una prossima inversione di tendenza. Diciamo piuttosto che la marcia del gambero in cui siamo impegnati da anni ci porterà ancora più in basso in futuro. E non perché i nostri imprenditori siano diventati e continuino a diventare stupidi. Tutt'altro. Soffrono semmai delle conseguenze di una campagna anticapitalistica iniziata all'incirca quaranta anni fa e portata avanti con tenacia fino ad oggi da coloro i quali considerano il denaro lo sterco del diavolo oppure, peggio ancora, uno strumento per opprimere il proletariato.

D'accordo che il comunismo ha fallito e gli stessi comunisti si vergognano di esserlo stati, ma la mentalità pauperistica è rimasta e non ha cessato di provocare danni. Il risultato è che l'Italia è inospitale per chiunque intenda intraprendere una qualsiasi attività finalizzata a creare profitto. L'industriale, piccolo o grande che sia, l'artigiano e financo i lavoratori autonomi (le cosiddette partite Iva) sono considerati sfruttatori, evasori fiscali se non addirittura ladri.

Lo stesso Stato, attraverso l'azione politica di alcuni partiti di ispirazione marxista, si è strutturato in modo tale da frenare lo slancio produttivo, imponendo vincoli, lacci e lacciuoli, adempienze burocratiche che scoraggiano ogni persona intenzionata ad aprire un negozio, una fabbrichetta, un laboratorio.

I sindacati poi hanno completato l'opera di dissuasione nei confronti di chi amava (e ama) mettersi in proprio, contribuendo ad avvelenare i rapporti tra datore di lavoro e dipendenti. Le fabbriche si sono spesso trasformate in luoghi di tensioni, di lotta perfino violenta, di odio. I tribuni del popolo hanno preteso per un lungo periodo di legittimare i picchetti (davanti alle cancellate degli stabilimenti) deputati a respingere quei lavoratori desiderosi di recarsi al lavoro, esercitando il diritto di non scioperare, equivalente al diritto di scioperare.

Questo per dire a che punto si è riusciti ad arrivare pur di umiliare i padroni (e il personale non ideologizzato) e costringerli a sottostare ai voleri dei poteri rossi e, in molti casi, a chiudere bottega. Lo Statuto dei lavoratori di brodoliniana memoria è un documento della mentalità collettivistica cui accennavamo sopra che ha determinato l'insuccesso del nostro apparato produttivo.

Bisogna aggiungere che il sistema industriale ha resistito per parecchio tempo agli attacchi feroci degli anticapitalisti, a dimostrazione che i padroni avevano e hanno temperamento da vendere. Ma nel momento in cui agli effetti negativi della guerra dei quarant'anni contro di loro si sono aggiunti quelli di una storica crisi mondiale, numerosi imprenditori - per di più vessati dal fisco e dalla burocrazia mostruosa - hanno ceduto, portando i libri in tribunale.

Ora i politici - qualunque politico - parlano e straparlano di ripresa e di emergenza occupazione. Non si rendono conto di avere favorito le condizioni migliori per uccidere la produzione, quindi di avere soppresso posti di lavoro e azzerato la voglia di avviare un'impresa. Come diceva Bartali, gli è tutto da rifare. Serve una rivoluzione culturale di segno opposto a quella di Mao, cioè orientata a rieducare gli italiani, persuadendoli che il primo obiettivo è il recupero delle risorse, altrimenti - se non ce ne sono - non si possono spartire. Già. Per avere un impiego è indispensabile avere delle fabbriche, farne di nuove che siano efficienti e competitive. Finora siamo stati bravi soltanto a distruggerle ed è assurdo avere la velleità che dal cimitero industriale si ricavino stipendi, benessere e stabilità sociale.

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