Cronache

Un luogo con dintorni magici preservati dai barbari moderni

A Varese e nei paesi limitrofi sopravvivono gioielli artistici che hanno resistito alla volgarità dell'edilizia contemporanea. Perfetti Castelseprio e Castiglione

Palazzo Castiglioni a Castiglione Olona
Palazzo Castiglioni a Castiglione Olona

Ci sono due luoghi perfetti vicino a Varese, inevitabili; e, a Varese, almeno uno perfettibile. Iniziamo dal più antico: Castelseprio. Lontano dal lago, su una collina isolata, a circa trecento metri di altezza, la parte antica di Vico Seprio. Ne restano imponenti testimonianze in un territorio bagnato dal fiume Olona e attraversato dal fiume Tenore con gli affluenti Ronché, Refreddo e la Roggia Milinara.
Difficile, anche in luoghi altrettanto incontaminati, ritrovarsi tra natura e testimonianze architettoniche di una così totale immersione in un altro tempo, preservato senza che sia richiesto d'immaginare. Basta vedere e vivere. L'area archeologica e il borgo fortificato sono davanti a noi, preservati da almeno cinque secoli di vegetazione che ha occultato il Castrum e nascosto i resti della Basilica di San Giovanni e quella di San Paolo.
Come in età medioevale Castelseprio, isolata e protetta, si difese dalle invasioni barbariche, così oggi si difende dalla volgarità e dalla mortificazione dell'edilizia contemporanea. Camminiamo a Castelseprio tra il VIII e il l'XII secolo dopo Cristo. Tutta la città fortificata, in quello che era stato un campo militare, le monache benedettine costruirono il monastero di Torba, degradato fino a disperdere la funzione religiosa per diventare un'azienda agricola. Oggi il monastero è un presidio del Fai, e ne è stata recuperata la chiesa di Santa Maria con la notevole abside in pietra di fiume e mattoni. Ma occorre risalire al Castrum per passare dal pittoresco al sublime, dall'integrità dei luoghi all'intelligenza dell'uomo. Si sale fino alla chiesa di Santa Maria foris portas, e ci si trova in un luogo del pensiero perfettamente equidistante tra i mosaici ravennati e gli affreschi di Giotto a Padova.
A Castelseprio s'incontra non un pittore di storie sacre ma un individuo, un vero artista, un maestro che racconta ciò che sente in una lingua pura, in uno stile originale. Si attraversa un portico e si entra in una chiesa con tre ampie absidi. In quella centrale sono riemersi gli affreschi sopravissuti, con le storie dell'infanzia di Cristo in un racconto che sembra tratto dai vangeli apocrifi. Il segno dell'artista è libero, energico, gestuale. Il piacere del racconto prevalente su qualunque schema iconografico, con un forte richiamo alla classicità, alla pittura romana, ma in un sorprendente naturalismo.
Nell'Annunciazione appare una testimone. E ancor più insolita è la prova delle acque amare per dimostrare la verginità di Maria. Segue l'apparizione dell'angelo Giuseppe e il viaggio a Betlemme tra gli episodi di più intenso naturalismo. In San Giuseppe segue la Madonna arrancando dietro un asino di sorprendente vitalità, agile e nervoso. Vediamo poi l'Adorazione dei Magi, la Natività, con la lavanda del bambino e l'annuncio ai pastori, e la Presentazione di Gesù al Tempio. Nella parte posteriore dell'arco trionfale, due angeli in volo si affrontano al medaglione centrale dell'etimasìa (trono vuoto di Cristo) verso il quale portano lo scettro e il globo. È dominante un tenue colore rosso, proprio della sinopria, e sul quale, distesi a secco, posano gli azzurri e i verdi.
La libertà e la freschezza del racconto hanno determinato un aspro dibattito sulla cronologia delle pitture. Per lo scopritore Giampiero Bognetti, così come per Pietro Toesca, gli affreschi sono della seconda metà del VII secolo, e l'autore un pittore orientale. Per Viktor Lazarev, del VI-VII secolo. Per Kurt Weizman del X secolo, opera di un miniatore di gusto classico. Nessun dubbio, quindi, sulla personalità dell'artista; ne manca soltanto il nome, tanto gli affreschi parlano di una persona viva di cui sentiamo la freschezza delle idee e il respiro, tanto da volercelo immaginare più che orientale o macedone, lombardo, il primo pittore lombardo la cui felicità del disegno sembra anticipare Tanzio da Varallo e Morazzone, nato, quasi mille anni dopo, poco lontano da Castelseprio.
Il secondo luogo perfetto è Castiglione Olona, doppiamente sorprendente per essere una città integra nei monumenti e una città toscana in Lombardia. Divisa anch'essa in una parte alta e in una parte bassa, Castiglione è separata da Torba dal torrente Valdessera. Insediamento longobardo, il borgo assume l'aspetto di città rinascimentale grazie al cardinal Branda Castiglioni che vi costruisce il suo palazzo, nel quale chiama a dipingere Lorenzo Di Pietro detto il Vecchietta, nella cappella della chiesa di San Martino. Nello studio del Cardinale una veduta di città è riferibile a Masolino da Panicale, ma è nella parte alta, sulla cima del colle, che troviamo la Collegiata, la chiesa Madre di Castiglione Olona. Qui gli affreschi di Masolino, al culmine della sua vita, sono l'ultimo sogno di un pittore che era entrato nel Rinascimento quasi controvoglia, nello scontro con Masaccio. Ed è nel battistero che architettura classica e natura trovano un'armonia senza precedenti. C'è dolcezza e malinconia nei volti, di Erode come di Erodiade.
I dignitari della corte di Branda siedono alla tavola di Erode sotto un loggiato che sembra pensato da Luca della Robbia. Salomè ha la concentrazione di una santa. Erodiade la maestà di una madonna. Ovunque si sente la corte. E le storie del Battista sono l'occasione per una festa, per una rappresentazione teatrale nella quale non c'è spazio per la morte. Sulla controfacciata la dignità del cardinale si rispecchia in una straordinaria veduta di Roma, della quale si riconoscono il Pantheon e il Campidoglio, a maggior gloria di Castiglione.
Forse nessun ciclo di affreschi in Lombardia, se non la Camera degli Sposi di Mantegna, ha la stessa aulica solennità, la stessa compiuta classicità, di questo ciclo di Masolino, testimonianza la più luminosa, di una luce crepuscolare, di quel Rinascimento umbratile che anticipa Mantegna e Piero. E proprio per quanto di gotico ancora ne sopravvive, può essere ricordata la terza escursione a Varese. Quella a un luogo abbandonato, carico di storia e di gusto, sintesi di tutta l'arte italiana, così come in letteratura D'Annunzio è sintesi di tutta la poesia. Mi riferisco al Museo Pogliaghi, a Santa Maria del Monte, una delle più notevoli case-museo d'Italia.
Qui lo scultore Ludovico Pogliaghi, cui si deve la più bella delle porte del Duomo di Milano, ebbe casa e studio dal 1885 alla morte nel 1950. Qui raccolse frammenti archeologici, sculture, dipinti, oggetti, tappeti. L'architettura allude al Quattrocento lombardo e al gotico veneziano. Naturalmente il museo è chiuso, in attesa di una riapertura dopo il restauro, ma l'atmosfera è quella di un santuario in cui oggetti e testimonianze di viaggio fanno intendere la complessa ed eclettica cultura dell'ultimo scultore antico che unisce gotico e barocco, testimonianze di oriente e anche ceramiche antiche e moderne. Nell'ambiente più grande si vedono i gessi dello scultore, tra i quali il modello per la porta del Duomo di Milano realizzato nel 1908. Un anno prima che a Milano Marinetti concepisse il manifesto futurista aprendo una nuova stagione dell'arte. Pogliaghi chiude un'epoca. E la città di Varese la sigilla.


(4. Continua)

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