Politica

Dalla, mai una stecca Nemmeno coi quadri

Fra i pittori amava scapigliati e simbolisti, nei quali si riconosceva. E fa ritrovare la voce ai politici

Dalla, mai una stecca Nemmeno coi quadri

La prima parola con cui iniziava a dire o a rispondere era «fratello». Una formula non convenzionale, ma profondamente amicale, cristiana. Teneva molto a invitarti a qualche speciale occasione, l’inizio di una tournée, la presentazione di un libro. Ma non mancavano le ipotesi di incontri per lavori comuni. A mia volta volli fargli fare un concerto a Piazza Armerina con grande entusiasmo di popolo. E, in almeno due occasioni, lo ricevetti a Salemi.
La prima volta fu anche burrascosa, perché i cittadini lo aspettavano ed egli, partito da Milo vicino a Catania, dove aveva casa, poco distante da Battiato, si trovò in panne all’altezza di Caltanissetta. Lo accompagnava il giovane Marco Alemanno, artista e poeta. Forse aveva sottovalutato la distanza, fatto sta che mi sembravano troppo rassegnati. Allora persi le staffe, e gli urlai con tutta la veemenza possibile che non era pensabile che lui tornasse indietro. Dovetti essere così violento e convincente che Lucio alla fine arrivò. A Salemi si divertì, accennò una canzone, vide in piazza Alicia la proiezione di una partita di calcio e poi, così come era venuto, apparendo all’improvviso, se ne andò.

Era lieve, leggero come un folletto, appeso al vento con i capelli posticci. Non conosceva distanze, e tutti quelli che lo accostavano diventavano suoi amici. Insieme in Sicilia fummo anche a Modica, girando per gallerie e viaggiando su una Rolls Royce d’oro fino ad Acate, per visitare il castello. Era curioso, colto, sempre pronto a chiedere per capire. Mai distratto dalle cose e dagli uomini. Era bello viaggiare con lui. Ma era ancor meglio trovarlo nelle sue tane, nei suoi rifugi. A Milo in una casa aperta, luminosa, dentro la natura, assai diversa dalla dimora claustrale di Franco Battiato.

Ma Lucio era anche spesso alle isole Tremiti. Altro luogo, altro mare, altra casa. Sempre luminosa, aperta, con un grande giardino. L’ultima volta che andai a trovarlo lì il tempo volse al brutto e ci rifugiammo nella sua bianca casa, in perfetta armonia, protetti e felici. Si parlava di tutto, ma soprattutto d’arte perché nell’altra abitazione, la casa madre a Bologna, vicino alla chiesa di San Domenico (quante volte in quella casa eravamo stati con un altro, perduto, compianto amico: Pino Gavina!) Lucio teneva una molto sofisticata e precisa collezione d’arte. E spesso mi chiamava per mostrarmi gli ultimi acquisti.

Nella Bologna di quegli anni grande stimolatore e grande raccoglitore era, e ancora è, Antonio Storelli, professore all’Accademia di belle arti, che indirizzò e assecondò il gusto di Lucio, per un segmento coincidente col mio. Io sono stato onnivoro. Lucio era innamorato degli artisti decadenti, tra scapigliatura, simbolismo, novecento inquieto, dall’altra parte delle avanguardie. Amava i pittori ferraresi tra fine ’800 e primi del ’900, da Gaetano Previati a Giovanni Battista Crema a Ugo Martelli. Gli piacevano le atmosfere sognanti e il realismo magico. Il suo tempo interiore, nella pittura come nella musica, era quello di Enrico Caruso, che gli diede l’estro per una delle sue più belle canzoni. Ma, come nella musica lo stimolo era arrangiato in una chiave originalissima, così anche nell’arte le opere di pittori e scultori erano scelte per ciò che contenevano di lui, mostrandosi a sua immagine e somiglianza.

La sua casa era lo specchio della sua anima, le sue scelte erano prolungamenti delle sue emozioni. Con Lucio Dalla se n’è andato non solo un grande musicista, intimamente lirico, ma anche un uomo di gusto in un mondo musicale fatto di personaggi spesso gratuitamente provocatori. Lucio era un uomo pieno di grazia ma non se n’è andato.

Resterà sempre fra noi, con le sue musiche e le sue parole, la sua fraternità.

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