Monti fa la guerra agli evasori: ma chi paga è in guerra con lui
18 Agosto 2012 - 07:00Solo applicando aliquote umane sarebbe giusto essere severi con chi frega il Fisco. E gli italiani tartassati con le tasche vuote non possono certo rilanciare i consumi
Mario Monti afferma che il tasso vertiginoso di imposte evase contribuisce in misura determinante alla cattiva reputazione dell'Italia in Europa. Probabilmente ha ragione. Come avevano ragione i suoi predecessori a Palazzo Chigi quando, per quarant'anni, forse più, dicevano la stessa cosa, aggiungendo che i nostri guai dipendevano (e dipendono) dal fatto che molti cittadini, i più ricchi, fregavano il fisco a danno dello Stato, privandolo del denaro indispensabile per finanziare i servizi di cui anche i «ladri» fruiscono.
Il discorso, messo così, non fa una piega. Ma c'è un ma. Se fosse vero che il guaio è questo e non altro, bisognerebbe chiedersi per quale motivo in tanti decenni nessun governo sia riuscito a porvi rimedio. È così difficile esigere il dovuto dai contribuenti? Come fanno gli altri Paesi, quelli che ci rimproverano di essere evasori incalliti, a incassare le tasse che noi invece evadiamo? Basterebbe copiarli, adottarne i sistemi di accertamento e riscossione. Perché non lo si fa? Perché non lo hanno fatto gli esecutivi di un tempo e non lo fanno neppure i tecnici?
In mancanza di risposte, non resta che osservare uno strano fenomeno: anche Monti, esattamente come i premier del passato, anziché far pagare le tasse a chi non le ha mai pagate, o non ne paga abbastanza, ne esige di più da chi le ha sempre versate. Non è una bella soluzione. Semmai è una colossale presa in giro. Si dà infatti il caso, assurdo, che l'Italia sia in vetta alla classifica delle nazioni più tartassate e che, nonostante ciò, sia in testa anche alla classifica dei Paesi in cui si imbroglia maggiormente l'erario. Scusate, ma a casa nostra questo si chiama controsenso. Significa inoltre che il Professore si merita le critiche che gli rivolgiamo, provocando la sua crescente irritazione.
Ci scusi, caro Presidente: le sembra intelligente ciò che ha fatto? Cioè spremere i limoni già spremuti, trascurando quelli pieni zeppi di succo? Conosciamo la sua obiezione. Qui si tratta di affrontare l'emergenza crisi e debito pubblico. Sicché lei è andato sul sicuro bastonando chi era già cosparso di lividi. A parte il fatto che tutto questo non è carino, le vorremmo segnalare che i buchi nel bilancio si creano quando si spende di più di quanto si introita. Ne deriva che per tapparli sia opportuno invertire la tendenza: ossia spendere meno di quanto si introita. Altrimenti non si aggiusta nulla, nemmeno vendendo il patrimonio immobiliare dello Stato. Il cui ricavato abbatterebbe sì il debito per un anno o forse due, ma, una volta esauriti i proventi straordinari, non impedirebbe che quel debito tornasse ai livelli precedenti.
Ovvio. Se io ho uno stipendio di 2.000 euro al mese e ne spendo 2.500, alla fine dell'anno ho un disavanzo di 6.000 euro. Dopo un decennio, quel passivo sale a 60mila. Per ripianarlo, alieno i quadri e l'argenteria. Ottima idea. Ma se frattanto non riduco le uscite entro i limiti di 2.000 euro - la mia retribuzione - e continuo a spenderne 2.500, fra dieci anni avrò di nuovo accumulato un debito di 60mila euro, che non potrò onorare avendo già venduto quadri e argenteria. Nel mio piccolo, registrerò un elegante default.
Questa, signor Presidente, non è alta economia insegnata alla Bocconi: è semplice conto della serva. Ma ha il pregio dell'esattezza. Quindi, se desidera sistemare la contabilità, non ha scelta: metta pure all'incanto il patrimonio dello Stato; intanto, però, contenga la spesa pubblica entro margini a noi consentiti, sennò tra un lustro, forse meno, saremo ancora al campo delle cinque pertiche: in rosso, come oggi, dunque bisognosi di prestiti (su cui matureranno interessi a carico del solito Pantalone).
Lei ci chiederà: quali spese tagliare? Cominci ad abolire i contributi a fondo perduto assegnati annualmente alle imprese. Quelle che ce la fanno in proprio, ce la fanno; quelle che non ce la fanno, amen: chiudano. Contestualmente abolisca l'Irap che non è una tassa, ma una gabella odiosa calcolata non sull'utile o sul fatturato, bensì sul numero dei dipendenti. Un'autentica idiozia.
Nei Paesi (Italia e Grecia, per esempio) in cui le tasse sono alte, proporzionalmente è alta l'evasione fiscale. Coincidenza? Improbabile. Ciò dovrebbe suggerirle che è più necessaria l'equità di Equitalia. Applicando aliquote umane sui redditi, sarebbe poi giusto essere severi, rigorosi e inflessibili nel perseguire l'evasione, magari pubblicando - come avviene per i bilanci delle aziende - la denuncia annuale che ogni cittadino è obbligato a presentare. Il controllo sociale sarebbe un deterrente formidabile contro le furbizie, i furti.
Da noi, invece, si invoca la privacy per tenere segreti i guadagni sui quali la gente è (sarebbe) costretta a pagare le imposte, atto pubblico per eccellenza.
Infine, per rilanciare l'economia non c'è nulla di meglio che produrre di più.
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