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Monti fa la guerra agli evasori: ma chi paga è in guerra con lui

Solo applicando aliquote umane sarebbe giusto essere severi con chi frega il Fisco. E gli italiani tartassati con le tasche vuote non possono certo rilanciare i consumi

Monti fa la guerra agli evasori: ma chi paga è in guerra con lui

Mario Monti afferma che il tasso vertiginoso di imposte evase contribuisce in misura determinante alla cattiva reputazione dell'Italia in Europa. Probabilmente ha ragione. Come avevano ragione i suoi predecessori a Palazzo Chigi quando, per quarant'anni, forse più, dicevano la stessa cosa, aggiungendo che i nostri guai dipendevano (e dipendono) dal fatto che molti cittadini, i più ricchi, fregavano il fisco a danno dello Stato, privandolo del denaro indispensabile per finanziare i servizi di cui anche i «ladri» fruiscono.
Il discorso, messo così, non fa una piega. Ma c'è un ma. Se fosse vero che il guaio è questo e non altro, bisognerebbe chiedersi per quale motivo in tanti decenni nessun governo sia riuscito a porvi rimedio. È così difficile esigere il dovuto dai contribuenti? Come fanno gli altri Paesi, quelli che ci rimproverano di essere evasori incalliti, a incassare le tasse che noi invece evadiamo? Basterebbe copiarli, adottarne i sistemi di accertamento e riscossione. Perché non lo si fa? Perché non lo hanno fatto gli esecutivi di un tempo e non lo fanno neppure i tecnici?

In mancanza di risposte, non resta che osservare uno strano fenomeno: anche Monti, esattamente come i premier del passato, anziché far pagare le tasse a chi non le ha mai pagate, o non ne paga abbastanza, ne esige di più da chi le ha sempre versate. Non è una bella soluzione. Semmai è una colossale presa in giro. Si dà infatti il caso, assurdo, che l'Italia sia in vetta alla classifica delle nazioni più tartassate e che, nonostante ciò, sia in testa anche alla classifica dei Paesi in cui si imbroglia maggiormente l'erario. Scusate, ma a casa nostra questo si chiama controsenso. Significa inoltre che il Professore si merita le critiche che gli rivolgiamo, provocando la sua crescente irritazione.
Ci scusi, caro Presidente: le sembra intelligente ciò che ha fatto? Cioè spremere i limoni già spremuti, trascurando quelli pieni zeppi di succo? Conosciamo la sua obiezione. Qui si tratta di affrontare l'emergenza crisi e debito pubblico. Sicché lei è andato sul sicuro bastonando chi era già cosparso di lividi. A parte il fatto che tutto questo non è carino, le vorremmo segnalare che i buchi nel bilancio si creano quando si spende di più di quanto si introita. Ne deriva che per tapparli sia opportuno invertire la tendenza: ossia spendere meno di quanto si introita. Altrimenti non si aggiusta nulla, nemmeno vendendo il patrimonio immobiliare dello Stato. Il cui ricavato abbatterebbe sì il debito per un anno o forse due, ma, una volta esauriti i proventi straordinari, non impedirebbe che quel debito tornasse ai livelli precedenti.

Ovvio. Se io ho uno stipendio di 2.000 euro al mese e ne spendo 2.500, alla fine dell'anno ho un disavanzo di 6.000 euro. Dopo un decennio, quel passivo sale a 60mila. Per ripianarlo, alieno i quadri e l'argenteria. Ottima idea. Ma se frattanto non riduco le uscite entro i limiti di 2.000 euro - la mia retribuzione - e continuo a spenderne 2.500, fra dieci anni avrò di nuovo accumulato un debito di 60mila euro, che non potrò onorare avendo già venduto quadri e argenteria. Nel mio piccolo, registrerò un elegante default.
Questa, signor Presidente, non è alta economia insegnata alla Bocconi: è semplice conto della serva. Ma ha il pregio dell'esattezza. Quindi, se desidera sistemare la contabilità, non ha scelta: metta pure all'incanto il patrimonio dello Stato; intanto, però, contenga la spesa pubblica entro margini a noi consentiti, sennò tra un lustro, forse meno, saremo ancora al campo delle cinque pertiche: in rosso, come oggi, dunque bisognosi di prestiti (su cui matureranno interessi a carico del solito Pantalone).
Lei ci chiederà: quali spese tagliare? Cominci ad abolire i contributi a fondo perduto assegnati annualmente alle imprese. Quelle che ce la fanno in proprio, ce la fanno; quelle che non ce la fanno, amen: chiudano. Contestualmente abolisca l'Irap che non è una tassa, ma una gabella odiosa calcolata non sull'utile o sul fatturato, bensì sul numero dei dipendenti. Un'autentica idiozia.

Nei Paesi (Italia e Grecia, per esempio) in cui le tasse sono alte, proporzionalmente è alta l'evasione fiscale. Coincidenza? Improbabile. Ciò dovrebbe suggerirle che è più necessaria l'equità di Equitalia. Applicando aliquote umane sui redditi, sarebbe poi giusto essere severi, rigorosi e inflessibili nel perseguire l'evasione, magari pubblicando - come avviene per i bilanci delle aziende - la denuncia annuale che ogni cittadino è obbligato a presentare. Il controllo sociale sarebbe un deterrente formidabile contro le furbizie, i furti.

Da noi, invece, si invoca la privacy per tenere segreti i guadagni sui quali la gente è (sarebbe) costretta a pagare le imposte, atto pubblico per eccellenza.
Infine, per rilanciare l'economia non c'è nulla di meglio che produrre di più.

Ma per farlo ci vuole qualcuno che quei prodotti (a prezzi adeguati) li compri. Come fanno gli italiani a comprarli se lei, Presidente, svuota le loro tasche a forza di tasse?

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