Politica

Napolitano visto da Feltri: un reuccio senza vergogna

Nel libro "Buoni e cattivi" scritto con Stefano Lorenzetto Una galleria di 200 ritratti al vetriolo: politici, imprenditori, galantuomini e "peccatori". Dalla Fallaci a Fini

Napolitano visto da Feltri: un reuccio senza vergogna

S'intitola "Buoni e cattivi" e lo hanno scritto Vitto­rio Feltri e Stefano Lo­renzetto ( Marsilio,pagg.544,eu­ro 19,50, in libreria da giovedì 24 aprile). È una mini enciclopedia che condensa mezzo secolo di politica, economia, cultura, co­stume, spettacolo e sport; mez­zo secolo di personaggi cono­sciuti da vicino oppure osserva­ti da lontano: pontefici, presi­denti, premier, ministri, magi­strati, imprenditori, editori, gior­nalisti, attori, artisti, campioni, galantuomini e criminali. Eccone un estratto

Ha ragione Beppe Grillo: merita l’impeachment. Negli Stati Uniti chiamano così l’incrimi­nazione di un ufficiale civile, compreso il presidente, che si sia reso colpevole di tradimento. E Giorgio Napolitano ha tradito. Magari in punta di diritto riuscirà a sfangarla anche stavolta, ma gli resterà appiccicato addosso per sempre il marchio d'infamia. Al di là di ogni ragionevole dubbio. Ha tradito la sua funzione. Ha tradito la Costituzione. Ha tradito gli italiani che avevano eletto un presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, e se ne sono ritrovati a Palazzo Chigi un altro, Mario Monti, imposto dal capo dello Stato con un vero e proprio golpe. Il complotto fu orchestrato insieme ai poteri forti, in primis banche e giornali, sulla base di un documento segreto di 196 pagine, intitolato Appunti per un piano di crescita sostenibile per l'Italia, che l'allora consigliere delegato di Intesa Sanpaolo, Corrado Passera, consegnò a Napolitano e Monti, venendo poi cooptato nel nuovo governo che doveva metterlo in pratica (e per fortuna che non ci riuscì, visto che contemplava una tassa patrimoniale del 2 per cento su tutta la ricchezza mobiliare e immobiliare, esclusa la prima casa: depositi bancari e postali, titoli di Stato, fondi d'investimento, polizze assicurative e previdenziali).

A inchiodare il despota del Quirinale ci sono le testimonianze che Carlo De Benedetti e Romano Prodi hanno reso al giornalista Alan Friedman, riportate nel libro Ammazziamo il gattopardo. Ove non bastassero, è arrivata la conferma in una videoconfessione dello stesso Monti, prima alla tv del Corriere e poi al Tg1: Napolitano comunicò al Professore con cinque mesi d'anticipo che doveva prepararsi a prendere il posto del Cavaliere alla guida del governo. In quel momento, giugno 2011, Berlusconi era il premier legittimamente eletto. Non aveva subìto alcuna condanna definitiva, né era stato fatto decadere da senatore. Ciononostante a novembre sarebbe stato rimpiazzato dal tecnocrate bocconiano, senza che il Parlamento avesse sfiduciato il governo in carica, solo perché così aveva stabilito sottobanco il capo dello Stato d'intesa con quelli che contano.

Invitato da Napolitano a scaldare i motori e a tenersi pronto per il cambio in corsa, Monti si consultò con Prodi, che lo incoraggiò: «Se te lo offrono, non puoi dire di no» (sottinteso: il governo). Non contento del viatico mortadellesco, due mesi dopo, ad agosto, raggiunse De Benedetti nella sua casa di St. Moritz, in Svizzera. L'editore della Repubblica e dell'Espresso gli consigliò di accettare di gran carriera la proposta di Napolitano.

Ora è tutto maledettamente chiaro. È chiaro che lo spread non sfondò quota 500 perché l'economia andava a rotoli. È chiaro che il differenziale di rendimento fra i titoli di Stato italiani e quelli tedeschi fu fatto salire artatamente dai 173 punti base di giugno ai 552 di novembre per creare un'emergenza fittizia che facesse digerire il ribaltone agli italiani (prova ne sia che a febbraio 2014, con lo spread tornato poco sopra i valori del giugno 2011, il presidente della Confindustria, Giorgio Squinzi, dichiarava con le mani nei capelli d'essere ancora addirittura «terrorizzato» dall'andamento dell'economia). È chiaro che il presidente della Repubblica andò ben oltre le sue prerogative, senza che gli elettori ne fossero edotti. È chiaro che un privato cittadino, da italiano diventato svizzero, riesce a pilotare la politica nazionale, purché si chiami De Benedetti e sia proprietario di 28 fra quotidiani e periodici, 5 canali televisivi e 3 radio, dopodiché a distanza di anni gli è pure consentito di vantarsene pubblicamente. È chiaro che in Italia comanda Sua Maestà il re imperatore Giorgio I, non il popolo.

Tanta energia in un nonagenario è stupefacente. Quando Napolitano nel 2005 fu nominato senatore a vita, rimasi di stucco: credevo che fosse già morto. L'ultimo segnale di esistenza lo aveva dato l'anno precedente, incalzato da un giornalista della televisione tedesca Rtl, Boris Weber, il quale aveva scoperto che l'europarlamentare dei Democratici di sinistra era inciampato in un rimborso di 800 euro per un volo Roma-Bruxelles della compagnia Virgin Express che in realtà ne costava appena 87,79, tasse aeroportuali incluse. Nel servizio filmato, che solo i cittadini della Germania ebbero il bene di vedere, Napolitano perdeva le staffe, dava in escandescenze pur senza tradire un inglese quasi perfetto, agitava il dito ammonitore, rimandava l'importuno ai questori, gridava che gli unici a cui doveva rendere conto erano i contribuenti italiani, minacciava di chiamare gli agenti della sicurezza e infine prorompeva nell'idioma nostrano: «Si vergogni!». Una scena miserevole.

L'anno seguente fu eletto presidente della Repubblica dalla maggioranza di centrosinistra che aveva appena vinto le consultazioni politiche grazie a Prodi, e molti, io fra costoro, pensarono che fosse resuscitato. In effetti risultava sparito dalla circolazione, quantomeno dalla scena. Invece era ancora vivo, fors'anche a sua insaputa. Ma nel giro di poche settimane dimostrò che il Quirinale esercita effetti miracolosi sulla salute del corpo e della mente. Napolitano vi entrò con passo incerto, curvo sotto il peso dei suoi 81 anni. Già alla sua prima uscita sembrava reduce da un trattamento con il Gerovital nella clinica della dottoressa Ana Aslan a Bucarest: dritto come un fuso, impettito, pieno di vigore e soprattutto lucidissimo.

Che se la spassasse con la consorte Clio nella reggia di Monte Cavallo, più confortevole della piscina in cui recuperavano la perduta giovinezza Art, Ben e Joe, i tre vecchietti del film Cocoon, a noi ormai ultrasettantenni non poteva che far piacere: è il sogno di tutti prenotare una vacanza a vita, e soprattutto a sbafo, con il culo al caldo. Ma il fatto gli è che un bel giorno, per raccontarla alla maniera di Carlo Collodi in Pinocchio, la sorprendente metamorfosi dell'inquilino del Quirinale ha cominciato a estendersi all'ambito strettamente istituzionale. Da notaio della Repubblica e supremo custode della Costituzione, nonché dell'unità nazionale, il nostro si è erto a leader morale del Paese. Ormai il presidente è visto e considerato come una guida illuminata e la sua parola è ascoltata con tale rispetto che nessuno osa contraddirla. Strano, perché ogniqualvolta un partito accenna all'opportunità di trasformare la repubblica parlamentare in repubblica presidenziale viene zittito quasi che avesse bestemmiato. Insomma, il presidenzialismo è proibito sulla carta, ma può essere esercitato in forma surrettizia da re Giorgio.

Non passa giorno senza una dichiarazione attribuita al Quirinale. Napolitano non si limita a dare un'occhiata alle leggi approvate dal Parlamento, onde verificare che non siano in contrasto con la Costituzione e abbiano la necessaria copertura finanziaria. No, le orienta con avvertimenti preventivi già in fase di stesura. Indirizza, consiglia, ammonisce, recrimina. Forma i governi a propria immagine e somiglianza. Detta il ruolino di marcia e gli obiettivi dei medesimi. Convoca il premier per catechizzarlo e lo tiene – era il caso di Enrico Letta – al riparo dai fulmini. Riceve in continuazione i leader della maggioranza e dell'opposizione per fustigarli o per blandirli. Sollecita provvedimenti legislativi. Si circonda di una corte di reggicoda, i cosiddetti quirinalisti, ai quali con sapienti dosaggi o con grossolane insufflazioni detta temi e suggestioni da sviluppare nei rispettivi giornali, lasciando trapelare i propri disappunti in modo anonimo, trincerato dietro la ridicola formula che segnala un giorno sì e un giorno no «l'irritazione del Colle» per questo o quel provvedimento, per questa o quella polemica, per questa o quella critica. Infine, se un governo non gli va a genio, lo cambia, previa nomina di un senatore a vita (Monti) cui conferire l'incarico.

Uno si chiede: Sua Maestà ha titoli morali e politici per esercitare il regale mandato ad ampio spettro che si è autoattribuito? Analizziamo. Dopo aver definito Lenin «espressione e guida geniale del movimento rivoluzionario», nel 1974, quando Aleksandr Solzenicyn fu espulso dall'Unione Sovietica, in un lungo articolo uscito sull'Unità, e ripubblicato pochi giorni dopo da Rinascita, Napolitano scrisse cose che, a rileggerle oggi, fanno ancora accapponare la pelle: imputava allo scrittore reduce dai gulag «aberranti giudizi politici»; gli addebitava «rappresentazioni unilaterali e tendenziose della realtà dell'Urss, accuse arbitrarie, tentativi di negare l'immensa portata liberatrice della Rivoluzione d'ottobre»; lo additava al pubblico disprezzo per le «cospicue somme da lui accumulate, grazie ai diritti d'autore, nelle banche svizzere»; sottolineava come «solo commentatori faziosi e sciocchi» potessero «prescindere dal punto di rottura cui Solzenicyn aveva portato la situazione»; sosteneva infine che le «tesi ideologiche» del dissidente avevano «suscitato larghissima riprovazione» nella sua patria e che, pertanto, era giustificabile chi considerava il suo esilio la «soluzione migliore».

Vado avanti. Ha lasciato passare 30 anni esatti prima di riconoscere d'aver sbagliato schierandosi a favore dell'invasione sovietica dell'Ungheria nel 1956. Quando i carri armati di Mosca stroncarono la rivolta a Budapest, Napolitano aveva salutato con entusiasmo la brutale repressione volta «a impedire che l'Ungheria cadesse nel caos e nella controrivoluzione, non già a difendere solo gli interessi militari e strategici dell'Urss ma a salvare la pace nel mondo».

Da ministro dell'Interno, Napolitano è riuscito nella storica impresa di far rimpiangere Antonio Gava e, sul fronte caldo dell'immigrazione, di rivalutare Roberto Maroni, colui che nel 1994 lasciò passare il famigerato decreto salvaladri e, allorché Umberto Bossi gli chiese spiegazioni, rispose candidamente: ho scorso il testo ma non ne ho afferrato il senso (fu il primo caso di un membro del governo che, pur scrivendo abbastanza bene, non aveva ancora imparato a leggere).

Nel 1991-1992 ha condotto una campagna forsennata per far dimettere il presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, per il quale il Pds chiedeva l'impeachment, proprio come il Movimento 5 stelle di Beppe Grillo – ah, le nemesi! – propone adesso per Napolitano. L'ex comunista accusò il capo dello Stato di tenere «comportamenti inquietanti», di commettere «forzature istituzionali», di minacciare «la serena dialettica tra i poteri democratici». Anni dopo se l'è presa con me perché avevo ricordato tutto questo su Libero.

Ha fatto ricorso ai soliti corazzieri della stampa amica per censurare il «repertorio di provocatori giudizi» che avevo pubblicato e mi ha rinfacciato con alterigia di non sapere «nulla del rapporto di amicizia e stima stabilitosi nel corso di oltre 50 anni» fra lui e Cossiga. Io non saprò nulla, però mi è bastato parlare qualche volta con l'ex inquilino democristiano del Colle per comprendere che cosa pensasse davvero del suo successore.

Napolitano ha chiacchierato al telefono dal Quirinale con l'ex ministro Nicola Mancino, indagato per la torbida vicenda della presunta trattativa fra Stato e mafia, e ha cercato di aiutarlo in tutti i modi. Quando ha avuto sentore che quelle conversazioni, intercettate per sbaglio dalla Procura di Palermo, potessero finire in pasto alla stampa o essere portate in un'aula di giustizia, ha sollevato un conflitto di attribuzioni davanti alla Corte costituzionale fino a ottenere che venissero distrutte, confermando così implicitamente che non sarebbe stato molto edificante leggerle sui giornali e rinunciando all'unico precetto che la sua coscienza avrebbe dovuto suggerirgli a mo' di scudo: male non fare, paura non avere.

Oggi siamo al paradosso per cui il primo e unico comunista che sia riuscito a insediarsi nella residenza dei papi e dei re ha deciso – dopo che in precedenza aveva solennemente escluso «nel modo più limpido e netto», con tanto di comunicato ufficiale, «una riproposizione del suo nome per la presidenza» – di rimanervi per un altro settennato, che si concluderà, a Dio piacendo, nel 2020, quando starà per compiere 95 anni. Un caso unico al mondo di statista che non solo supera di slancio la terza e la quarta età, ma sbaraglia anche la quinta. A questo punto non mi sentirei di escluderne una sesta.

Per come s'è comportato nella sua lunga vita, dovrei mettergli un 2 in pagella. Ma ha commutato in una pena pecuniaria di 15.532 euro i 14 mesi di detenzione che il mio amico Sallusti avrebbe dovuto scontare ingiustamente in galera e per questo gesto di clemenza, di cui gli sono grato, merita la sufficienza. Perciò, come i vecchi professori, faccio la media matematica e ci aggiungo un mezzo punto d'incoraggiamento. Alla sua età ne ha bisogno.

VOTO: 4½

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