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Da Ruby a Tangentopoli bis: a Milano inchieste col trucco

Dalle carte del Csm sullo scontro tra Bruti e il suo vice Robledo spuntano anomalie anche per assegnare il caso Expo. Le nuove accuse del pg Minale. E il procuratore capo attacca i pm

Da Ruby a Tangentopoli bis: a Milano inchieste col trucco

Che fine hanno fatto le accuse di associazione mafiosa che Ilda Boccassini ha utilizzato per conquistare la gestione dell'inchiesta sugli appalti dell'Expo? Di queste accuse, nell'ordine di custodia eseguito l'altro ieri mattina, quello che ha portato in carcere tra gli altri Primo Greganti e Gianstefano Frigerio, non c'è più traccia. E così anche di questo dovrà occuparsi il Consiglio superiore della magistratura, che la prossima settimana interrogherà tra gli altri proprio la Boccassini: e dovrà capire se lo scontro in corso a Milano sia figlio di protagonismi personali e di «populismo giudiziario», come sostiene ieri il procuratore Bruti Liberati. O se invece, come afferma il principale accusatore di Bruti, il procuratore aggiunto Alfredo Robledo, a Milano una ristretta cerchia di magistrati, tutti più o meno legati a Magistratura Democratica, si impadronisca di tutti i fascicoli più delicati in violazione delle regole della stessa Procura.
Nelle carte già in mano al Csm ci sono già alcuni dati di fatto da cui sarà impossibile distaccarsi. Sono i punti fermi che ha messo Manlio Minale, l'anziano procuratore generale, spiegando al Csm che in almeno due casi non è stata attivata la «necessaria interlocuzione» con Robledo, modo ostico per dire che il procuratore aggiunto è stato scavalcato, e che nell'inchiesta sulla Serravalle, che lambiva il Comune di Milano, il ritardo di Bruti nell'avviarla «ha pregiudicato le indagini». Ma davanti al Csm, Minale ha parlato anche di Expo, e qui le cose si fanno ancora più interessanti. Al Csm, Robledo aveva denunciato come una plateale anomalia il fatto che una inchiesta per reati di corruzione non fosse coordinata da lui, competente per questi reati, ma da Ilda Boccassini, ovvero dal pool antimafia. Ed ecco quanto dichiara Minale: «Robledo era portatore di un convincimento assoluto, che in quel procedimento ci fossero solo reati contro la pubblica amministrazione» e che dunque lui «fosse stato ingannato e messo da parte (...) tant'è che anche ultimamente ho detto: “Guarda che io voglio essere tranquillo, mi sono fatto dare le iscrizioni e risultano iscritti alcuni indagati per 416 bis”», cioè per associazione mafiosa. Così, con la presenza anche di un filone mafioso dell'indagine su Expo, si giustificherebbe la presenza della Boccassini nell'inchiesta. Ma l'altro ieri vengono eseguiti gli arresti, e nell'ordine di cattura non c'è traccia di accuse di mafia. Nella retata dell'Expo si parla di appalti, di tangenti, di politica, ma non di Cosa Nostra né di 'ndrangheta. E allora, che fascicolo venne fatto vedere a Minale, con le accuse di associazione mafiosa? Forse i vecchi fascicoli sulla penetrazione 'ndranghetista in Lombardia, da cui ufficialmente scaturisce l'inchiesta Expo. Ma è una parentela assai remota, passata per mille passaggi successivi. Non era certo di quei filoni, che Robledo si sentiva spodestato per scarsa affidabilità politica.
Proprio ieri, per andare al contrattacco Bruti Liberati sceglie un convegno all'università Statale. E lì afferma esplicitamente che il «populismo giudiziario è un virus endemico nei corridoi delle Procure della Repubblica, ma da noi a Milano ha potenti antidoti». La frase di Bruti parte da una citazione di un libro di Luigi Ferrajoli, padre fondatore di Magistratura Democratica, che si riferiva soprattutto a Antonio Ingroia, capofila di quei pm che «cercano di costruire un consenso popolare non solo alle proprie indagini ma anche per la propria persona». Ma questo, per Bruti, è anche il caso di Alfredo Robledo.

E quei «potenti antidoti» di cui parla ieri Bruti sembrano voler dire che il procuratore è convinto di uscire vincente dallo scontro, in cui si sente attaccato non in nome della trasparenza ma del «populismo» e dell'ambizione personale.

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