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La sfida di Francesco Salvare la Chiesa togliendole sacralità

Bergoglio si comporta come "uno di noi". Ma basterà a evitare il declino?

La sfida di Francesco Salvare la Chiesa togliendole sacralità

Uno come noi. Papa Francesco, sin dal nome, ha voluto scegliere non solo la via dell'umiltà e della semplicità ma anche la via della prossimità, per essere in mezzo agli altri, uno tra gli altri, nel linguaggio comune e nello stile di vita. Populismo evangelico, per dirla con categorie mediatico-politiche. Al di là dell'indole e della provenienza sudamericana, al di là dell'insopportabile retorica con cui è stato accolto nei media, che hanno costruito intorno a lui il gergo dell'umiltà e della semplicità (che è poi la contraffazione dell'umiltà e della semplicità vere), c'è qualcosa di essenziale in quella svolta. Non muta solo l'estetica del Papato, sono in gioco il ruolo e il messaggio cristiano. Per capirlo meglio occorrerà muovere dal paragone col Papa precedente. Ratzinger era un uomo di pensiero, uno studioso, non aveva la dimestichezza col mondo e con gli altri, la vita comune, i gesti consueti. Era un papa teologo, s'interrogava su Dio e non sul modo di porgersi alle folle, cercava sì di rendersi chiaro ma non era naive.

Anche le sue battute avevano un fondamento teologico e colto, come quelle sugli angeli, la fede e l'umorismo. Ratzinger infondeva il senso della distanza. Liebe der ferne, Amore per il lontano, lo chiamava Nietzsche, e un suo erede assai autonomo, Julius Evola, percorse fino in cielo quella visione aristocratica sostenendo che una vera autorità spirituale debba rimarcare la distanza, mantenere quel distacco dagli altri e da se stesso, quella superiorità impersonale. Senza cedere a quel che egli definiva «nostrismo», cioè volersi ridurre a «uno di noi». Del resto il sacro indica, anche in senso etimologico, la separazione, il distacco. Il sacro esige soglie, luoghi puri, non mescolati col profano, spazi sacri, quasi inaccessibili. La luce non può provenire dalla stessa oscurità ma da un altrove. Il sacro evoca la trascendenza. Il sacro emana un'aura che si esprime nell'unicità irriproducibile ed eccezionale; e l'immagine dei due papi uno accanto all'altro nelle stesse vesti bianche, oltre lo sconcerto di uno sdoppiamento tra due Santi Padri, sembra spegnere, neutralizzare, quell'aura.

E qui entriamo nel cuore del tema. Papa Francesco ha compiuto più o meno consapevolmente, uno strappo teologico: quello tra sacro e santo. Il sacro esige altezza, unicità e lontananza, il santo esprime testimonianza (fino al martirio), prossimità e vicinanza. C'è una fiorente letteratura contemporanea sul sacro, che va da Mircea Eliade a Emanuel Lévinas, da Georges Bataille a René Guénon, per parlare di autori non legati alla dottrina cristiana. C'è pure un lucido dialogo sul tema, L'eclisse del sacro (edito in Italia da Settecolori), tra il cattolico Thomas Molnar e il neopagano Alain de Benoist.
La tradizione cattolica dal canto suo offre esempi diversi, di romani pontefici e figure carismatiche che hanno percorso la via del sacro, sacerdoti e figure ecumeniche che invece hanno seguito la via dell'umile santità. Se dovessimo individuare al livello più alto il punto di divergenza fra tradizione cattolica e spirito originario del cristianesimo dovremmo partire da lì: la prima è prevalentemente emanazione del sacro - mediante il rito, la liturgia, le figure ieratiche - la seconda sorge tra gli umili come fede comune, aspirazione alla vita santa e comunitaria. Non a torto si parla di ritorno alle origini ogni qualvolta si avversa la gloria solenne della chiesa cattolica, lo splendore e l'autorità. La religione ispirata al sacro è una religione del Padre, che è Pontifex, cioè facitore di ponti tra l'umano e il divino; la religione dell'incarnazione è una religione del Figlio, e dunque fraterna, rivolta all'umanità. La Chiesa ha cercato di mediare fra le due vie rappresentando nei Pontefici l'immagine del Santo Padre premuroso verso i suoi figli, a partire dal Figlio di Dio, e ha accolto nel suo seno, oltre i monaci e gli asceti, anche gli ordini di fratelli e sorelle, avvicinando il sacro agli uomini e la santità alle istituzioni. I gesuiti furono esempio di mediazione tra i due modelli, ma furono più istituzione che movimento. La Chiesa ha mediato tra il carisma dell'invisibile e l'impronta della visibilità, come scriveva Carl Schmitt. Ha scelto di essere nel mondo ma non del mondo. Si è incarnata ma senza risolversi nell'orizzonte umano e terreno.

Di quella fede che cerca la sua verità nell'umiltà e nella carità, San Francesco è stato il simbolo più alto e più luminoso. Anche se la cultura del nostro tempo l'ha trasformato in un pacifista, ecologista e pauperista, quasi un cobas della fede in pieno medioevo, il suo messaggio resta spirituale, la sua povertà è ascesi e rinuncia, non è denuncia sociale e lotta di classe; l'umiltà avvicina al Signore e non si fa rivolta sociale. Bisogna risalire a Pio XII per avere l'ultima immagine di un Papa aristocratico che scende sì in mezzo alla folla, ma serba tuttavia la distanza solenne del ruolo. Paolo VI non era umile ma più per indole intellettuale, come Ratzinger; Giovanni XXIII, conservatore di temperamento, fu una figura materna più che paterna, accogliente nello sguardo e nella parola. Papa Woytila aveva la maestà del ruolo e la paternità della missione, e tuttavia sapeva comunicare agli uomini e coinvolgerli nel suo sguardo. Papa Bergoglio, dalle sue prime mosse, si indirizza verso una fede parrocchiale, una Parrocchia-mondo immersa nella vita quotidiana e nel suo gergo. Egli rappresenta, nella sua simplicitas, un Dio partecipe alla vita comune dei giorni, Cristo che torna in strada, la Madonna come figura di casa; ma a rovescio anche il Demonio per lui s'insinua nella vita comune e ci separa dalla gioia, inducendo al pessimismo.

A tal proposito fra tanti saggi dedicati alla presenza del diavolo che sono in libreria, è uscito un testo che ci riporta in paradiso: è di un pensatore cristiano di matrice ebraica, islamica e nicciana, Fabrice Hadjadj, Il paradiso alla porta, Saggio su una gioia scomoda (Lindau, pp.472, E. 29).
La religione protesa verso la santità tramite la carità perde l'evocazione del sacro, il richiamo alla sapienza e ai misteri, al rito e alla trascendenza. Forse è più congeniale all'essenza del cristianesimo che alle origini fu religione degli umili e degli ingenui; forse è più adatta a parlare al mondo e ai popoli del sud del pianeta. I tempi diranno se una religione mimetica, che si confonde con la vita del suo tempo, sia più efficace e più veritiera di una religione del sacro e del mistero, regale e carismatica, che induce a uscire dal tempo presente e del mondo profano. Ma al di là della carità e della missione di povertà, sullo sfondo epocale giganteggia la morte di Dio, che poi si traduce in secolarizzazione e scristianizzazione, eclissi del sacro e perdita della santità, avvento dell'ateismo pratico e del nichilismo gaio.

Un'immane catastrofe che il Papa-Parroco affronta con disarmante sorriso.

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