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Da Star al Riso Scotti i nostri marchi Doc fanno gola all'estero

Da Star al Riso Scotti i nostri marchi Doc  fanno gola all'estero

Ci sono marchi e prodotti che, un po' come i monumenti, sono simbolo di un Paese. Ne raccontano la storia, ne definiscono l'identità, la rappresentano all'estero. Eppure, in Italia, dove il cibo (assieme alla moda) è da sempre il biglietto da visita verso il resto del mondo, molti grossi brand del settore agroalimentare sono volati via. Smembrati, ceduti, comprati da multinazionali con sede a parecchi chilometri dal Bel Paese. Con una perdita, in termini di fatturato, pari a dieci miliardi di euro dall'inizio della crisi. Lo ha denunciato ieri il presidente di Coldiretti Sergio Marini, durante l'Assemblea nazionale. Dove, per l'occasione, era stato provocatoriamente allestito uno scaffale con i prodotti «del Made in Italy che non c'è più».
Il caso più recente è quello della Pasticceria Confetteria Cova di via Monteneapoleone a Milano, che adesso parla francese: è stata acquistata dal gigante del lusso Louis Vuitton Moet Hennessy. Un passaggio di proprietà ha fatto discutere gli abitanti del capoluogo lombardo, molto affezionati allo storico negozio. Andando indietro nel tempo le cessioni, dal 2008 ad oggi, toccano molti nomi storici. Dal riso Scotti, di cui il colosso spagnolo Ebro Foods ha conquistato il 25 per cento, alla Star, passata nel 2012 sempre in mano iberica, al gruppo Agroalimen di Barcellona. Dall'Orzo Bimbo, venduto nel 2009 alla francese Nutrition&Santè del gruppo Novartis, all'olio Bertolli, un anno prima venduto alla Unilever e poi passato alla spagnola SOS.
Non va meglio nei comparti dei salumi e dei formaggi. Due anni fa la Fiorucci è stata venduta ancora una volta a una società spagnola, la Campofrio Food Group. Mentre nel 2010 il 27 per cento dello storico gruppo caseario Ferrari, fondato nel 1823 e che produce, tra le altre cose, Parmiggiano reggiano e Grana Padano, è finito nelle mani della francese Bongrain Europe. Le forme di grana per ora sono salve, certo è che i marchi di eccellenza della Penisola fanno gola anche a gruppi che con si sono sempre occupati di altro. Come nel caso dei vini. Di recente un imprenditore della farmaceutica di Hong Kong ha acquistato un'azienda vitiviniciola nel Chianti, nel cuore della produzione Docg del Gallo Nero. Del resto nel 2011 la storica casa di spumante Gancia è diventata per il settanta per cento di proprietà dell'oligarca Rustam Tariko, banchiere e proprietario della vodka Russki Standard. E un anno fa la Princes, società controllata dalla giapponese Mitsubishi,si è fusa (mantenendone il controllo) con la AR Industrie Alimentari, che produce pelati.
Il motivo di questo «assalto» ai brand italiani? Semplice, conviene: se i consumi interni sono in crisi, l'export sta benissimo, e i colossi stranieri hanno fiutato l'affare. Il problema, sottolineato da Marini, è però che lo shopping dall'estero sulle aziende italiane porta con sé uno «svuotamento finanziario delle società acquisite, delocalizzazione della produzione, chiusura di stabilimenti e perdita di occupazione». Con buona pace del legame con il territorio, con un ecosistema e delle materie prime che costituiscono la quintessenza di un prodotto di qualità.
Ma non per tutti questa «corsa all'acquisto italiano» è solo una brutta notizia. Giancarlo Aneri, da una vita alla guida dell'omonima azienda di vini pregiatissimi, spiega ad esempio che «se un cinese comincia a produrre Chianti addomesticato per andare incontro ai gusti dei suoi connazionali, questo è inaccettabile perché mina la qualità del Made in Italy.

Ma se l'acquisizione straniera è fatta per portare avanti la tradizione del vino italiano, allora va bene».

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