Altro che corna. In tempi di vacche magre, una moglie può scordarsi l'assegno di mantenimento per ben altro, come eccedere nello shopping. Se spende troppo in vestiti e profumi non merita di essere «mantenuta». Questa è la sintesi di una sentenza della Cassazione che, tra i comportamenti che mettono in crisi il matrimonio, ha introdotto la «patologia dell'uso incontrollato di denaro per effettuare ossessivamente acquisto di beni mobili». L'Alta Corte si adegua ai tempi di crisi e mette in soffitta il vecchio adulterio per occuparsi di devianze moderne come lo shopping compulsivo. E per la prima volta si occupa di un caso di separazione in cui l'addebito non viene dato per tradimento o violenze, ma per troppo shopping in violazione dell'articolo 143 del codice civile, che «obbliga i coniugi a concorrere alle spese nell'interesse della famiglia».
Nel caso concreto, una cinquantottenne di Pisa riceveva duemila euro al mese per le sue spese, come stabilito dal tribunale. I soldi però non le bastavano per i suoi forsennati acquisti. Tanto che, per soddisfare la sua nevrosi, non esitava a sottrarne a parenti e conoscenti. La sopportazione del marito è scoppiata e in appello anche i giudici gli hanno dato ragione. A nulla è valsa la difesa della donna che sosteneva di essere affetta da shopping compulsivo «caratterizzato da un impulso irrefrenabile ed immediato ad acquistare e da una tensione crescente alleviata soltanto acquistando beni mobili». La patologia c'era ma la donna era «lucida e orientata nei parametri spazio temporali nei confronti delle persone e delle cose» cioè non era incapace di intendere e volere. In appello dunque, alla donna era stata attribuita la responsabilità del naufragio matrimoniale.
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