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Tegola dai giudici di Milano: Formigoni sarà processato

Il senatore Ncd a giudizio nell'inchiesta su sanità lombarda e fondi neri della fondazione Maugeri

Tegola dai giudici di Milano: Formigoni sarà processato

Milano - Ci sono i suo fedelissimi, ad ascoltare il giudice che manda tutti sotto processo. C'è Carlo Lucchina, il direttore generale della Sanità lombarda, glabro e distaccato. C'è Nicola Sanese, l'uomo chiave del Pirellone. È andato via da poco Antonio Simone, compagno di scuola e di militanza ciellina fin dagli esordi, che si è fatto la galera preventiva senza mai cambiare versione. E c'è, su una panca, portato in ceppi dai secondini, sempre più spettrale, Piero Daccò, il munifico anfitrione di mille vacanze, ridotto da quasi due anni e mezzo di carcere a un ombra dell'uomo di un tempo. Lui, Roberto Formigoni, non c'è. Ma è come se ci fosse, per quanto la sua presenza incombe sull'aula e sull'intero processo. Perché quello che si aprirà il prossimo 6 maggio non sarà solo il processo a un gruppo di amici che la Procura accusa di essere diventati una banda. È il processo a un sistema: il sistema della sanità lombarda, quella del doppio canale pubblico-privato, che per Formigoni ha dato ai lombardi e non solo a loro cure di eccellenza. Ma che per la Procura milanese si è trasformata in una macchina da affari, da favori, da tangenti. E tutto ruotava intorno a lui, il Celeste, «capo e promotore» dell'associazione a delinquere. Rinvio a giudizio quasi scontato, viste le premesse. Arriva adesso, quando l'era che sembrava interminabile (quasi diciott'anni!) del regno di Formigoni sulla Lombardia è ormai chiusa, e all'ultimo piano del grattacielo voluto dal Celeste siede Bobo Maroni. Tecnicamente fu un'altra inchiesta, quella sui rapporti tra la 'ndrangheta e l'assessore alla casa Zambetti, a decretare la fine della giunta Formigoni, nell'ottobre del 2012. Ma era chiaro che a scavare giorno dopo giorno il terreno sotto i piedi del governatore erano le indagini sul sistema sanità, sul San Raffaele, sulla Fondazione Maugeri, sui suoi amici Daccò e Simone divenuti lobbisti ben pagati. Formigoni, fino all'ultimo, ha ostentato sicurezza, picchiando soprattutto su un tasto: tutte le delibere che hanno portato decine e decine di milioni delle casse degli ospedali amici erano figlie di scelte condivise dalla Giunta e dalla maggioranza. Ma più dei sotterfugi veri o presunti, tra prestazioni non tariffabili e altre astruserie tecniche, a segnare la fine imminente ed inevitabile erano i racconti che venivano a galla delle vacanze sibaritiche in giro per il mondo, delle barche prestate a costo zero o usate come proprie, delle ville in Sardegna passate di mano sottocosto, dei biglietti aerei a spese di chissà chi, insomma tutto un tenore di vita a scrocco che apparterrebbe alla sfera dei costumi privati e non del codice penale se non fosse per un piccolo dettaglio: a pagare era sempre Daccò, oggi uomo ombra di se stesso, ma allora per la Procura ombra di lui, del Presidente. Pagare Daccò, per i signori della sanità privata, voleva dire pagare Formigoni: questa è la tesi dei pm, che ieri il giudice preliminare fa propria rinviando a giudizio dieci imputati su undici. Esce di scena solo un imputato minore, Mario Cannata, accusato di avere emesso le fatture false necessarie per creare i fondi neri. Per Formigoni, Daccò, Simone, Lucchina e gli altri sei - compresi i presunti elargitori delle stecche, i vertici della fondazione Maugeri - l'accusa è di associazione a delinquere finalizzata alla corruzione internazionale. Non è il primo processo che il Celeste deve affrontare, e finora è sempre stato assolto, o persino prosciolto in istruttoria. Ma erano piccole storie, almeno in confronto a questa. Qui - più della singola delibera, di questo o quel regalo - sotto accusa c'è il sistema su cui si è fondato e mantenuto il suo potere.

Ma il rinvio a giudizio, dicono i suoi legali, «non ci toglie l'assoluta convinzione di un'accusa che non regge al vaglio critico, frutto di una forzatura del buon senso, delle prove e del diritto».

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