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Veleni allo scoperto a Milano Esplode lo scontro tra le toghe

Veleni allo scoperto a Milano Esplode lo scontro tra le toghe

MilanoGiudici contro nel Palazzo di Mani Pulite. Il più alto in grado tra i giudici milanesi contro il massimo rappresentante della pubblica accusa. Che, per la prima volta a memoria d'uomo, si affrontano pubblicamente nella cerimonia più sontuosamente coreografica della giustizia italiana, l'inaugurazione dell'anno giudiziario, tra ermellini, scettri, squilli di tromba e presentat-arm. Tra Giovanni Canzio, presidente della Corte d'appello, e il procuratore generale Manlio Minale erano sorte negli ultimi mesi alcune incomprensioni intorno alla gestione dei processi a Berlusconi. Ma quello che ieri si celebra è un distacco plateale tra approcci sideralmente lontani sul tema della giustizia. Canzio non può essere certo accusato di essere un berlusconiano. Ma su tutte le sue aperture si abbatte la scure di Minale. Dal carcere alla obbligatorietà della azione penale fino alle misure per limitare le impugnazioni che intasano le Corti d'appello: non una tra le idee di Canzio sopravvive alla scure del procuratore generale, che lancia persino l'anatema di «malinteso aziendalismo». E la ovazione con cui la platea accoglie il discorso di Minale sembra dirla lunga sull'umore della «base», del popolo con la toga.
Canzio sta lavorando per ridurre la durata dei processi? Per Minale la «ragionevole durata» è un valore di secondo piano, l'importante è che la sentenza sia giusta. Canzio solleva il tema delle carceri sovraffollate, e invita a scegliere quando possibile misure alternative alla detenzione? Minale ribatte che la cosa non lo riguarda, «non possono essere le procure a chiedere meno misure cautelari, quando vanno prese si prendono». Canzio osa addirittura mettere in discussione uno dei miti fondativi della giustizia italiana, sancito in Costituzione, ovvero la obbligatorietà dell'azione penale, parlando di «obbligatorietà temperata», e cioè suggerendo che si tenga conto delle priorità? «La obbligatorietà non sopporta aggettivi», tuona Minale.
È uno scontro apparentemente accademico, con Minale che cita il diritto romano, i processi per veneficio e stregoneria: ma che è invece tutto interno all'oggi, alle tensioni che attraversano la magistratura e il suo rapporto col potere politico. Canzio è uno dei maggiori giuristi italiani. Ma questo non gli risparmia le accuse dei duri, che lo accusano di non essere abbastanza sordo a quanto accade fuori dai palazzi di giustizia. Ieri, nel suo discorso inaugurale, inanella altre due colpe: la prima quando prende le distanze dalla sentenza con cui la sua stessa Corte d'appello aveva condannato al carcere il direttore del Giornale Alessandro Sallusti; la seconda quando applaude alla riforma dei reati di corruzione varata dal governo Monti, che molti pm hanno accusato di essere poco meno che un colpo di spugna. E di cui invece - con Mario Monti seduto in prima fila davanti a lui - Canzio dice che «sembra avere robuste radici e va accolta con favore», definendola «un intervento politicamente arduo ma nel quale si intravedono non poche luci». L'interminabile applauso a Minale sembra sancire l'isolamento di Canzio, allo stesso modo in cui il procuratore Bruti Liberati si era ritrovato accusato dai duri - e anche lì c'era di mezzo il caso Sallusti - di essere troppo aperto al dialogo con la politica.
Non c'è solo Milano, a raccontare di una magistratura che, smarrito il collante dell'emergenza antiberlusconiana, del «resistere, resistere, resistere» proclamato da Borrelli proprio in questa aula, fatica a trovare un'anima comune di fronte alle nuove sfide. A Roma il presidente della Corte d'appello Giorgio Santacroce spara ad alzo zero su «quei magistrati che si propongono di redimere il mondo, convinti che la spada della giustizia sia sempre senza fodero, pronta a colpire o a raddrizzare le schiene». A Genova il suo omologo Mario Torti se la prende con i colleghi che dopo essere diventati famosi «magari con esposizioni mediatiche non proprio misurate, lasciano temporaneamente la toga per questo o quel partito politico». Non era un corpo compatto, la magistratura della Prima Repubblica.

E nell'Italia dei tecnici, le toghe tornano a litigare.

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