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Vent'anni di persecuzione continua

Cambiano accuse e processi, ma l'obiettivo della Procura di Milano è sempre lo stesso: il berlusconismo e l'impero del Cav

Vent'anni di persecuzione continua

E pensare che sarebbe bastato poco. Forse un po' di pazienza in più da parte di Silvio Berlusconi. Forse qualche oscillazione nei misteriosi, delicati equilibri di potere che governano la Procura milanese. Quattordici anni fa, la pace che avrebbe cambiato la storia del paese era a portata di mano: e non si sarebbe arrivati alla sentenza di oggi. Una domenica di maggio del 1999 Berlusconi salì nell'ufficio del pubblico ministero Francesco Greco e ci rimase tre ore. Con Greco e il suo collega Paolo Ielo si parlò ufficialmente di una accusa di falso in bilancio. Ma era chiaro a tutti - e il procuratore capo Gerardo D'Ambrosio lo rese esplicito - che quell'incontro era il segno di un tentativo di dialogo. Berlusconi faceva alcune ammissioni, concedeva - e lo mise per iscritto in una memoria - che l'«espansione impetuosa» del suo gruppo poteva avere creato «percorsi finanziari intricati». La Procura si impegnava ad evitare accanimenti, e a trattare Berlusconi alla stregua di qualunque altro imprenditore: con la possibilità di fuoriuscite soft come quelle concesse al gruppo Fiat.

Sarebbe interessante capire ora, a distanza di tanti anni, dove si andò a intoppare il dialogo. Sta di fatto che rapida come era emersa, la strada si arenò. Il partito della trattativa si arrese. E riprese, violento come prima e più di prima, lo scontro senza quartiere. Da una parte un gruppo inquirente che ha dimostrato di considerare Berlusconi, nelle multiformi incarnazioni dei suoi reati, all'interno di quello che può in fondo essere letto come un unico grande processo, come la sintesi dei vizi peggiori dell'italiano irrispettoso delle leggi: il berlusconismo, insomma, come autobiografia giudiziaria della nazione. Dall'altra, il Cavaliere sempre più convinto di avere di fronte un potere fuori dalle regole, dalla cui riduzione ai binari della normalità dipende la sua stessa sopravvivenza. Da vent'anni Berlusconi e la Procura di Milano pensano che l'Italia sia troppo piccola per tutti e due.

Ma da dove nasce, come nasce, questa contrapposizione insanabile? L'apertura formale delle ostilità ha, come è noto, una data precisa: 22 novembre 1994, data del primo avviso di garanzia a Berlusconi. Ma la marcia di avvicinamento inizia prima. Inizia fin dalla prima fase di Mani Pulite, quando il bersaglio grosso della Procura milanese è Bettino Craxi. E, passo dopo passo, i pm si convincono che Berlusconi - che pure con le sue televisioni tira la volata all'inchiesta - è la vera sponda del «Cinghialone», il suo finanziatore e beneficiario. Chi c'è dietro All Iberian, la misteriosa società che nell'ottobre 1991 versa quindici miliardi di lire a Craxi, e riesce anche a farsene restituire cinque? Dietro questa domanda, che diventa strada facendo una domanda retorica, i pm lavorano a dimostrare la saldatura tra Craxi e Berlusconi. Quando nell'aprile 1994 Berlusconi diventa presidente del Consiglio, per il pool la vicinanza Craxi-Berlusconi diventa anche continuità politica, perché da subito la battaglia craxiana contro il potere (o strapotere) giudiziario diventa uno dei cavalli di battaglia del nuovo premier. Dal Quirinale viene messo il veto alla nomina di Cesare Previti a ministro della Giustizia. Ma al ministero va Alfredo Biondi, che di lì a poco vara il decreto subito etichettato come «salva ladri», ritirato a furor di popolo dopo il pronunciamento del pool in diretta tv.

È da quel momento che lo scontro compie il salto di qualità. Per la Procura milanese non c'è differenza sostanziale tra il Berlusconi imputato e il Berlusconi politico, perché il secondo è funzionale al primo: come dimostreranno poi le leggi ad personam, e, più di recente, la telefonata salva-Ruby alla questura di Milano. Le inchieste che si susseguono in questi vent'anni stanno tutte in questo solco, dentro la teoria della «capacità a delinquere» che diverrà uno dei passaggi chiave della sentenza per i diritti tv. Sotto l'avanzare degli avvisi di garanzia, Berlusconi si irrigidisce sempre di più, come ben racconta l'evoluzione delle strategie difensive: da un professore pacato come Ennio Amodio si passa all'ex sessantottardo Gaetano Pecorella, poi si approda alla coppia da ring, Niccolò Ghedini e Piero Longo. Le dichiarazioni di sfiducia di Berlusconi verso la serenità della giustizia milanese si fanno sempre più esplicite. Per due volte, nel 2003 e nel 2013, il Cavaliere chiede che i suoi processi siano spostati a Brescia, sotto un clima meno ostile. Per due volte la Cassazione gli dà torto.
Eppure, fino alla condanna definitiva di oggi, nessuno dei processi era arrivato ad affossare Berlusconi. Assoluzioni con formula piena, prescrizioni, proscioglimenti. Il catalogo dei modi in cui l'asse Ghedini-Longo riesce a tenere l'eterno imputato al riparo da condanne definitive è ricco. Una parte nasce da leggi varate per l'occasione, ma altre assoluzioni danno atto dell'inconsistenza di accuse che la Procura riteneva granitiche. La si potrebbe leggere come una prova della tenuta di fondo del sistema giudiziario, dei contrappesi tra pubblici ministeri e giudici? Berlusconi non la pensa così. E la severità delle ultime sentenze, i giudizi sferzanti dei tribunali del caso Unipol, la batosta del risarcimento a De Benedetti, la decisione dei giudici del processo Ruby 2 di candidarlo a una nuova incriminazione per corruzione in atti giudiziari lo avevano già convinto definitivamente che la contiguità tra pm e giudici era arrivata livelli intollerabili. Guardia di finanza, All Iberian, Mills, Sme, Lodo Mondadori, diritti tv, Mediatrade, Ruby, il rosario delle pene giudiziarie del Cavaliere a Milano sembra interminabile. Cambiano i procuratori, cambiano alcuni dei pubblici ministeri, ma la linea non cambia. Eppure questa è la Procura dove due magistrati di spicco del pool, Antonio Di Pietro e Gerardo D'Ambrosio, hanno detto a posteriori di non avere condiviso la decisione dell'avviso di garanzia del 1994 (il procuratore Borrelli replicò a Di Pietro pacatamente, «Ha detto così? Beh, se si presenta in Procura lo butto giù dalle scale»). È la Procura dove, con Romano Prodi al governo, Francesco Greco andò a un convegno di Micromega ad accusare il centrosinistra, «questi fanno quello che neanche Forza Italia ha osato fare».

È insomma la Procura dove la parte più pensante si rende conto che l'insofferenza di Berlusconi verso la magistratura è in fondo l'insofferenza di tutta la politica verso il potere giudiziario, e che non è affatto sicuro che il dopo Berlusconi porti alle toghe spazio e prebende. Ma per adesso lo scontro è con lui, con il Cavaliere.

E i pochi giudici che in questi anni hanno disertato, in corridoio venivano guardati storto.

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