Cronaca locale

È l’ora di Bohème Dopo lo sciopero, Puccini in scena

Si fa o non si fa? Lo sciopero che ha immolato sul suo altare le prime tre recite di Bohème concede finalmente un po'di tregua? Tutto bene. Sulla scena scaligera tornano Mimì e Musetta, i due volti del femminino ideale; Rodolfo, Marcello, Schaunard, Colline, i giovani e squattrinati artisti del «quartiere latino» che vincono ogni avversità con la forza degli anni, dell'illusione, di un futuro che certo ci sarà e dell'amore che magari ti fa dannare ma è l'unico vero motore del mondo. Come sempre in Puccini, la drammaturgia oltre alla presentazione dei personaggi prevede quella dell'ambiente. Che qui è il colore locale della Parigi alla quale aspiravano tutti gli intellettuali d'Europa.
La Bohème di questa sera è «la» Bohème della Scala. Quella che Franco Zeffirelli, responsabile di regia e scene (costumi di Piero Tosi) aveva realizzato per il teatro 46 anni fa con debutto il 31 marzo 1963, versione che alla sola Scala ha registrato da allora più di 170 recite e che avrebbe girato trionfalmente il mondo. La tenuta dell'opera è tanto intramontabile e sorprendente da stupire lo stesso regista. «Come avrò fatto? - si domanda - Ho trovato la chiave», si risponde. La chiave è la totale compenetrazione nello spirito della bohème, quella desunta dalle Scènes de la vie de bohème, lo spunto letterario che Henri Murger pubblicò a puntate su Le Corsaire tra il 1845 e il 1848. Ma anche l'altra, più vicina all'humus pucciniano, dei librettisti Giacosa e Illica. Che si inseriscono uno, l'autore di Tristi amori, nel naturalismo di area piemontese, e l'altro negli umori della Scapigliatura lombarda. Nell'allestimento di questa Bohème li ritroviamo entrambi. La neve che cade nel terzo quadro, quello dove gli affanni dei due protagonisti sono cancellati dallo stupore del sentimento che strugge e pare eterno, è la stessa che imbiancava le panchine del Valentino, il lungo-Po delle sartine e degli studenti. La festa sconclusionata che nel quarto quadro prelude all'entrata di Mimì morente è sceneggiata secondo gli umori bizzarri degli Scapigliati. E quanta nostalgia in quella vigilia di Natale con i ragazzini vestiti alla marinara, la tromba e il cavallino, i giocattoli della gerla di Parpignol. L’eccitazione della festa. Le finestre illuminate dietro le quali, per dirla col Pascoli del Gelsomino notturno, l'escluso s'immagina «segreti di felicità nuove». Così, ancora una volta, uno dei trionfatori della serata sarà senza dubbio Zeffirelli. Ma poi - meglio prima, c'è Puccini (nuova versione critica di Francesco Degrada), con i colori di una partitura in perenne metamorfosi, pronta a slittare senza strappi da un impianto armonico all'altro e di tema in tema. Un Puccini di transizione (Teatro Regio di Torino, 1 febbraio 1896, sul podio Arturo Toscanini), che sta in pieno verismo ma cammina con le sue gambe, preferendo all'eccesso la cifra sussurrata, la discrezione. Un Puccini inquieto. Un Puccini autobiografico, pronto a riconoscere la sua bohème di quando, studente a Milano, si trovava a dividere la camera d'affitto. A riportarci quest'allestimento storico è il giovane direttore venezuelano Gustavo Dudamel, più volte ospite della Filarmonica e alla seconda esperienza operistica scaligera dopo il Don Giovanni 2006. Con lui, in primo cast, Sveta Vassileva Mimì, Nino Machaidze Musetta, Fabio Sartori Rodolfo, Luca Salsi Marcello, Massimo Cavalletti Schuanard, Giorgio Giuseppini Colline, i complessi scaligeri e il direttore del Coro Bruno Casoni.


E poi tanta commozione e la solita lacrima: dal 1896 in poi il pubblico non s'è mai stancato di piangere. Repliche fino al 23 luglio

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