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La leggenda casereccia della Marilyn italiana

Da pornostar a simbolo dell’erotismo di una generazione che ha «sdoganato» i tabù sessuali

La leggenda casereccia della Marilyn italiana

Il nome era lì sull’atlante, un atollo nel Pacifico, vicino alla Polinesia. Erano solo cinque lettere: Moana. Da quelle parti significa «il posto dove il mare è più profondo». Dicono che il suo nome venga da lì. I suoi genitori l’avevano scelto a caso, il 27 aprile del 1961, puntando l’indice con gli occhi chiusi. Qualcuno ora dice che Moana è un mistero, come un mare profondo, e laggiù è facile lasciarsi incantare da miti e leggende. Una su tutte: la morte che non è morte. La stessa sorte capitata ai naufraghi dell’eternità, i semidei di cui i mortali faticano a pronunciare la parola fine. La ragazza di burro, bionda e con le labbra rosse, a spasso con i fantasmi del palcoscenico. Moana come James Dean, Moana come Jim Morrison, la lucertola dei Doors. Moana come Elvis, come Jimi Hendrix, voce e chitarra. Ma Moana è soprattutto Marilyn. È la versione italiana della donna che l’America non è mai riuscita a dimenticare, la ragazza bionda che tutti avrebbero voluto portarsi a letto, morbida e fragile, con il dramma scritto nel destino, con mariti e amanti da copertina, il campione di baseball, il drammaturgo, il presidente e il fratello del presidente. Marilyn è la puttana di celluloide che la morte fa santa. Marilyn è la Maddalena redenta sugli altari della Pop Art. E Moana, in fondo, ha le stesse stimmate. Moana era meno fragile di Marilyn. Mostrava la sua intelligenza, la sbandierava e ne andava fiera. Marilyn era un’attrice, grande insicura. Moana era solo una pornostar, anche se atipica (Fellini gli ha regalato un cameo in Ginger e Fred). La bionda di Hollywood si sentiva inadeguata, sempre. Moana era l’orgoglio di sventrare i tabù di quell’Italia che aveva digerito la morale cattolica e il cupo inverno del terrorismo. Erano gli anni ’80 e c’era in giro troppo ottimismo. Moana lo incarnava bene: era il sesso senza peccato. Era una madonna del Decamerone, una storia da narrare mentre intorno dilagava la peste dell’Aids. E lei si muoveva senza santità e con una certa perfidia si divertiva a dare voti al «maschio italiano non ancora emancipato». Non tutti l’hanno presa bene. Il suo memoriale uscì clandestino nel 1991 come Filosofia di Moana. C’erano nome e cognomi dei suoi amanti. Tutti celebri. E c’erano quei giudizi senza appello: «Lui si infilò un piagiama azzurro e io ci rimasi male perché non sopporto dormire insieme a uomini che indossano il pigiama. Capii che non era il mio tipo». La tenerezza: «Era davvero buffo: dormiva con tanti indumenti addosso, calze, mutande, canottiera di lana. Abbiamo tentato di spogliarlo e toccarlo. Lui è saltato giù dal letto e ha cominciato a correre per la stanza gridando: “Siete matte, mi vergogno”». La passione: «Ci sedemmo nei sedili posteriori e cominciammo a fare l’amore incuranti della gente che passava. Nei giorni che seguirono parlammo molte ore al telefono».
Moana, cortigiana colta, è morta il 15 settembre 1994. Lo stesso giorno di Karl Popper. Ma nella vita aveva scelto un’altra parte. «Molti mi dicono: “Sei una puttana, una prostituta pubblica”. Non mi importa di quello che la gente pensa di me e comunque nell’essere puttana non ci vedo niente di male». Si sentiva come Bocca di rosa. Era una diva del porno. L’idea di finire nei videoregistratori di diciottenni e vecchi porci era il segno tangibile del suo successo. Era affamata di successo. Senza pudore. E di soldi. Con lo stesso pudore: «Mi piace guadagnarlo, toccarlo, spenderlo e metterlo in banca (da buona genovese sono piuttosto parsimoniosa). Senza soldi non mi sento né tranquilla né felice».
Quando Antonio Ricci la chiamò per Matrioska e l’Araba fenice si divertì a interpretare il vero ruolo della donna in tv. Era il 1987 e lei era una valletta nuda. È lei la madre di tutto ciò che verrà dopo. E questo forse è il suo vero limite, da divinità casereccia, figlia di un piccolo schermo un po’ provinciale e senza poesia. Marilyn, dea grande e fragile, resta un capolavoro drammatico. Moana è un’icona dell’eccesso, quasi la sintesi tra l’erotismo di Anais Nin e l’estetica di una Drag Queen. A Busi che le dice: «L’erotismo è un concetto borghese». Lei risponde senza fronzoli: «Io conosco il sesso. E conosco quello che mi eccita e quello che non mi eccita. E basta». Moana è cruda come è cruda la vita. Alla sua famiglia dice: «Mi dispiace avervi trascinato in quest'inferno, ma non potete capire le ragioni per cui ho scelto questa vita».

Il suo mistero è chiuso in lei.

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