Cronaca locale

«La mia Cina la ritrovo sui Navigli»

«L’Europa non deve aver paura dell’Asia, ma solo riprendersi da un eccesso di comodità»

«Niente domande sulla politica. E per favore non chiedetemi di parlare di involtini di primavera o del capodanno cinese. Ci sono argomenti più interessanti di cui occuparsi». Huo Hsueh Kan, semplificato in Ho Kan per ragioni fonetiche, è un pittore astratto, un protagonista delle avanguardie e un abilissimo calligrafo. Poco più che settantenne, vive a Milano da una quarantina d’anni nel suo studio/abitazione di via Donatello, pieno di quadri, libri, vecchie foto, video e soprattutto dischi di musica classica e opera cinese, sua grandi passioni: «Mi piacerebbe che il Consolato, la comunità e le associazioni cinesi di Milano s’impegnassero più a fondo nel diffondere la nostra cultura - sostiene - Cina non vuol dire soltanto commercio e sviluppo economico, ma anche arte, musica e letteratura». Reduce da un viaggio di quattro mesi in Cina e a Taiwan, dove il Museo di Arte Contemporanea gli ha dedicato un’importante mostra, sorride per la paura che gli europei manifestano nei confronti del «pericolo giallo»: «In Cina tutto va molto in fretta - ammette - ma l’Europa non deve aver paura, deve solo riprendersi da un eccesso di comodità».
Nato a Nanchino nel 1932, fin da bambino ha manifestato un certo talento per la pittura, tanto che il nonno Huo Chu Yeh, eminente calligrafo e artista, gli insegnò a dipingere gli ideogrammi (i «simboli dello spirito»): ore e ore passate tra pennelli, china, carta e calamaio a imparare la calligrafia, studio allora fondamentale per l’istruzione dei bambini. Oggi Ho Kan è maestro indiscusso di questa antica forma d’arte, capace di raggiungere intense forme liriche al di là della semplice esecuzione.
La sua è stata la vita rocambolesca di chi ha lasciato la sua terra per Taiwan con l’attacco del Giappone alla Cina per poi tornare e dedicarsi all’arte: la fondazione nel 1957 insieme ad altri sette pittori cinesi del gruppo Ton Fan, il primo movimento d’avanguardia in Cina; la venuta in Europa nel 1964 e i successi uno via l’altro come critico, membro della giuria cinese per la Biennale di San Paolo in Brasile nonché insegnante e protagonista di mostre personali in giro per il mondo. Dopo anni come educatore a Nanchino, è approdato a Milano dove, oltre a immergersi nella nuova avanguardia, ha promosso eventi culturali e tenuto lezioni alla Statale (Lingue Orientali). «L’inizio è stato durissimo - dice - non conoscevo nessuno e la burocrazia era complicata. Poi mi sono integrato. Nei rari momenti di nostalgia ritrovo alcuni frammenti della mia Cina sui Navigli, dove mi capita di ripensare all’infanzia, quando andavo sul fiume in barca...». Oggi Ho Kan non insegna più: «Sono in un’età in cui cerco di limitare le energie», spiega quest’uomo comunicativo, disarmante per la modestia e l’orgoglio d'acciaio: «Non amo la confusione. Conduco una vita ritirata. Leggo, dipingo, eseguo lavori di ceramica, se mi chiamano vado a fare delle conferenze, ascolto musica, vedo poche persone e mi accontento. L’arte è la mia compagna». Parola di single ante ante-litteram, status di cui va fiero e che difende a spada tratta. L’editore Vanni Scheiwiller scrisse di lui: «Silenzioso, modesto, irriducibile; da anni lo ammiro perché mi insegna la “grande pittura senza immagine”: da ascoltare prima ancora di vedere.

Una pittura che non grida mai».

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