Cronaca locale

Aromatico o invecchiato, ecco dove si beve

Dai cocktail per l'aperitivo alla degustazione in tazza, ora i locali lo vogliono in carta

Antonio Bozzo

Il filosofo e monaco buddista Kenko, vissuto nel secolo XIV, gli dedicò un capitolo dei suoi "Momenti d'ozio": ne stigmatizzava il consumo eccessivo, che rendeva ubriachi i monaci, ma ne cantava le lodi se bevuto con saggezza. Sorseggiato di mattina, sotto il sole o la neve, oppure al tramonto, parlando d'amore all'ombra di un ciliegio in fiore, cosa c'è di più suggestivo e giapponese del sake? A Milano, città chiave per la penetrazione della cultura nipponica in Italia, il fermentato di riso dal Sol Levante ha sempre più estimatori. Da qualche mese c'è una vera casa della bevanda: Sakeya, in via Cesare da Sesto, prima «house of sake» italiana. Offre oltre 150 etichette, sake di prima qualità che accompagna i piatti dell'autentica cucina nipponica (niente sushi di banale ordinanza) preparati da Masaki Inoguchi. Sakeya è stata fondata da Lorenzo Ferraboschi (laureato in design, ha vissuto otto anni a Tokyo) con la moglie Maiko Takashima, soci in Sake Company, che importa etichette per tutta Italia. Ancora oggi la maggior parte degli italiani non sa che cosa sia, esattamente, il sake. Se provassimo a domandarlo, molti risponderebbero: «vino di riso», «un distillato giapponese», «una birra». No, è un fermentato di riso. Chi scrive ne ha scoperto qualche segreto in Giappone, durante un recente viaggio culminato nel Fine Sake Award a Tokyo. Ottenuta con doppia fermentazione - innescata da una muffa detta koji e dal lievito detto kobo - la bevanda viene prodotta a mano, lavorando il riso che deve essere arieggiato, steso su "graticci", curato in ogni passaggio come si fa con l'uva che finisce in bottiglia. Il sake sta al mondo giapponese come il vino a quello italiano. I produttori sono oltre 2000 e il loro tesoro può essere morbido, aromatico, invecchiato, persino frizzante, con bollicine che rimandano al Metodo Classico o allo Champagne. Alla degustazione, si scoprono sentori che vanno dalle spezie, alla nocciola, al miele, ai fiori, ai funghi, all'affumicato. L'immaginifica terminologia dei sommelier può applicarsi perfettamente al fermentato. L'alcol va dai 13 ai 18 gradi. Si beve a qualsiasi ora, ed è consigliato per accompagnare pranzo e cena giapponesi; a temperatura ambiente, o rinfrescato a 7 gradi, bevuto in piccoli bicchieri di ceramica o nei calici da vino, si sposa a tempura, soba, ramen, nigiri e sushi. Milano ha oltre 400 ristoranti giapponesi, anche se non tutti all'altezza, per via della contaminazione cinese. I migliori fanno compagnia a Sakeya, tenendo in carta sake di qualità. Si beve da Wicky Priyan, uno dei migliori ambasciatori della cucina giapponese in Italia. Da Finger's, dove regna lo chef nippo brasiliano Roberto Okabe. Da Hana viene servito, caldo o freddo, da una fiaschetta di ceramica (tokkuri) in tazze quadrate di legno grezzo dette masu. E accompagna gli ottimi ramen di Ryukishin, in via Ariberto. Alla bottiglieria Spartaco, va alla grande in versione spritz, invenzione della patronne Norie Harada. Al bar del Mandarin ha successo nel drink che interpreta con "asian touch" il Martini Cocktail.

Ma solo da Sakeya il percorso è completo, grazie ad abbinamenti con sake aromatici, rinfrescanti, fruttati, invecchiati.

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