Cronaca locale

Così quel Mussolini socialista si prese l'Italia con la forza

Cent'anni fa, il 21 marzo 1919, in piazza san Sepolcro arditi, futuristi e sindacalisti diedero vita al fascismo

Così quel Mussolini socialista si prese l'Italia con la forza

Il 21 marzo 1919, nel salone del Circolo dell'Alleanza industriale e commerciale di Piazza San Sepolcro nasceva Il «Fascio di combattimento» di Milano. C'erano arditi, nazionalisti, futuristi, interventisti, sindacalisti rivoluzionari guidati da un ex socialista ultramassimalista, Benito Mussolini, già direttore de «L'Avanti!» e ora alla guida del «Popolo d'Italia», giornale da lui fondato il 15 novembre 1914, dopo la sua espulsione dal Psi. Il 23 marzo, due giorni dopo, più o meno gli stessi partecipanti diedero vita al movimento nazionale dei «Fasci», il cui programma politico oltre a rivendicare «la valorizzazione della guerra rivoluzionaria al di sopra di tutto e di tutti», si poneva obiettivi di cambiamento radicale della società, come il suffragio universale col voto attivo e passivo esteso alle donne, l'abolizione del Senato, l'Assemblea costituente per decidere la forma dello Stato, un ruolo legislativo per le rappresentanze professionali e di mestiere, le otto ore di lavoro, l'abbassamento dei limiti di età previdenziale a 55 anni, una «forte imposta straordinaria sul capitale a carattere progressivo che abbia la forma di una vera espropriazione parziale di tutte le ricchezze» e il sequestro di tutti beni delle congregazioni religiose. I Fasci non si affermarono però su questa linea politica, anzi il primo bilancio elettorale di Mussolini, che nel novembre del 1919 presentò la sua lista solo a Milano (tra i candidati Arturo Toscanini), fu catastrofico: nessun deputato eletto. Una volta noti i risultati elettorali del novembre del 1919, redattori de «L'Avanti!» e militanti socialisti che non si erano dimenticati del 15 aprile 1919 quando gruppi di squadristi armati avevano assalito e devastato la sede del giornale, colsero l'occasione per organizzare una sorta di corteo elettorale funebre. Partendo dalla sede del «L'Avanti!» di via San Damiano che si affacciava in quel tempo sul Naviglio scoperto, gettarono nel canale una cassa che conteneva metaforicamente le spoglie di un Mussolini politicamente defunto. Ma il fascismo, da composito movimento rivoluzionario, grazie anche alla capacità tattiche di Mussolini a cui non facevano difetto né il trasformismo né il cinismo, si trasformò rapidamente in una forza conservatrice, antisocialista e antiproletaria che diede vita al Partito Nazionale Fascista. Certamente godette dell'appoggio degli agrari e di una parte degli industriali, ma fu soprattutto del consenso di vasti settori della piccola e media borghesia a costituirne la base sociale, sulla quale esercitò una notevole attrazione l'ideologia stessa dello stato totalitario che il fascismo andava costruendo. La rivoluzione dei ceti medi, al contrario di quella dei soviet, non distruggeva la ricchezza del Paese, né perseguiva un egualitarismo indifferente ai meriti e alle responsabilità. Il fascismo, appariva una forza giovane, decisa a contrastare le vecchie oligarchie dello Stato liberale per crearne uno nuovo, senza tuttavia sovvertire l'assetto sociale fondato sulla proprietà, dando l'immagine di una forza politica moderna e rivoluzionaria, ma rispettosa dei valori nazionali. Quando Mussolini, il primo agosto del 1918 aveva cambiato il sottotitolo de «Il Popolo d'Italia» da «quotidiano socialista», come era in origine, a «quotidiano dei combattenti e dei produttori», delineava una nuova strategia per la conquista del potere che avrebbe presto cominciato a dare frutti. Ben difficilmente però il fascismo si sarebbe impadronito del potere se le principali forze politiche democratiche, dai socialisti ai popolari e dai liberali ai conservatori, non avessero commesso errori grossolani di valutazione della realtà del Paese. Per non parlare delle responsabilità del re che si sottrasse ai propri doveri di garante dello Statuto. In particolare tra la maggioranza massimalista del Partito socialista, prigioniera dei miti dello sciopero generale e della dittatura del proletariato che agitò senza averne piena consapevolezza delle conseguenze (il fenomeno del diciannovismo di cui scrisse Pietro Nenni) e i popolari, troppo condizionati dalle gerarchie vaticane che intravvedevano in Mussolini un interlocutore affidabile, non si seppe cogliere il valore strategico di un incontro tra i due grandi partiti di massa del tempo, quello socialista e quello cattolico che pure Filippo Turati aveva auspicato. I comunisti si isolarono accusando i riformisti come Matteotti e Turati, il cattolico Sturzo, il liberale Amendola di essere «semifascisti» (Gramsci) o «un'ala del fascismo» ( Togliatti). Né le forze di opposizione riuscirono, paralizzate anche da rancori e personalismi, a cogliere le circostanze favorevoli, neppure dopo il delitto Matteotti, per dar vita a governi «costituzionali» in grado di fermare l'avanzata di quella che si rivelava ormai una dittatura. Si possono ritrovare oggi analogie, episodi assimilabili, circostanze comuni con le vicende che portarono, quasi un secolo fa, il fascismo al potere. Ma difficilmente la storia si ripete e soprattutto il contesto di oggi è profondamente diverso.

La storia di quegli anni dovrebbe insegnare alle nuove generazioni che, al di là di tutti gli errori compiuti a quel tempo dalle forze politiche e sociali, la deriva totalitaria fu favorita in primo luogo dalla colpevole assenza dello Stato come garante della legalità, capace di combattere in modo efficace il ricorso alla violenza come strumento di azione politica.

Walter Galbusera, presidente della Fondazione Anna Kuliscioff

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