Cronaca locale

Dagli Aristogatti a 007 Il micio al cinema è un attore con i baffi

Ha sette vite pure nei film: cattivo con Bond, romantico da Tiffany e perfetto per le streghe

Dagli Aristogatti a 007  Il micio al cinema è un attore con i baffi

Il sole non c'era, ma il micio, spuntando timido dalle cantine, fece ugualmente i saluti yoga. Posò come «il cane a testa insù». Ma si arrabbierebbe a saperlo. Meglio «il guerriero», visto che fece anche quello. Con la zampina posteriore lunga lunga. Tutt'intorno era il grigio. Effimero alone di sensazioni che venivano da lontano. E sapevano di polvere. Era la casa dei ricordi e lui stesso era un ricordo. Spuntato dai sotterranei perché si era addormentato. Non per rincorrere topi, spariti anch'essi. Era rimasto solo con un valzer triste, quello di Sibelius. E una casa fatiscente. La guardò con l'occhio della nostalgia, prima che fosse l'ultima volta. Immaginò un cagnolino ai piedi di una sedia a dondolo. S'impaurì e scappò. Trafitto dall'angoscia. O meglio, ci provò soltanto. Per i felini la casa è attrazione fatale. Guardò meglio nelle illusioni e scorse il latte e una poltrona comoda. Il gioco dei bambini. Le bolle di sapone. Vide la sostenibile leggerezza dell'essere quando non lo è più. Prima che le ruspe uccidessero anche la memoria. Quello di Allegro non troppo era un gatto di cartone. E forse non era nemmeno un gatto ma il sospiro del passato. Malinconica felinità.

È rimasto senza nome, non gli serviva per passare alla storia. Dell'animazione. Anche fra i mici ci sono i figli di nessuno. E hanno più nobiltà di chi è stato «battezzato». Il persiano bianco di Ernst Stavro Blofeld ha la faccia da cattivo. Come il suo padrone, il nemico di Bond. James Bond. E dal '63 per più di cinquant'anni ha attraversato otto film e vari partner. Da Anthony Dawson (Dalla Russia con amore e Thunderball) a Christoph Waltz (Spectre) passando per Telly Savalas (Al servizio di Sua Maestà) e Max Von Sydow (Mai dire mai). Ma è rimasto bianco. Accarezzato da quella mano di boss con l'anello al dito. Miagolio di fedeltà.

Anonimo come quello di Holly Golightly (Audrey Hepburn), che faceva Colazione da Tiffany e maltrattava gli uomini. «Non ho diritto di dargli un nome perché in fondo noi due non ci apparteniamo». E lo mise fuori casa in una notte di pioggia. Ci rimase male. Ma forse in quell'attimo capì perché nessuno gli avesse mai regalato nemmeno un vezzeggiativo. Finché Paul, il fidanzato di turno, infuriato, le gettò ai piedi l'anello di Tiffany e andò a cercarlo. Solo allora, vedendo Holly raccogliere il gioiello infischiandosene di tutto, comprese che aveva ragione Marylin Monroe. Il diamante è davvero il migliore amico di una donna. E, quando tornò a casa tra le braccia di lui, si rese conto pure che non sempre le femminucce sono migliori dei maschietti.

Ne sapeva qualcosa anche il cucciolo che decise di rubare la scena ad Anita Ekberg nella Dolce vita. E ci riuscì. Mastroianni li guardò allontanarsi dopo il mitico bagno nella fontana di Trevi e, nel cuore della notte, attraversò Roma per cercare un po' di latte per il piccolo. Ma c'è chi se lo perse. Il gatto. E non fu per cattiveria. Solo testa tra le nuvole, pardon tra le note. A proposito di Davis, Llewyn era un cantante folk del Greenwich Village e viveva dove qualcuno lo ospitava. Una coppia di amici gli offrì un divano e chiese solo di curargli il micio che, permaloso e birbante, la fece in barba al barbuto chitarrista. E fuggì. Non si trovò più, se non il gemello perfetto. Con un tremendo difetto. Era del sesso opposto. Fu stanato il cantante ma non il gatto che, sentendosi trascurato, non ne volle sapere di ritornare.

Al contrario della famigliola di Duchessa, Bizet, Minou e Matisse che invece un nome l'avevano eccome. E pure una padrona che li rese eredi della sua fortuna, accumulata in anni da soprano. Finì che Edgar, il maggiordomo, gliela giurò e tentò di abbandonarli. Fu becera questione di soldi, ma Romeo «er mejo der Colosseo», trapiantato nella Parigi del 1910, li salvò e scalzò quell'irriconoscente servitore dai beneficiari. Scalata sociale di un orfanello a quattro zampe. Figlio di una schiatta di celebrità che risultavano all'anagrafe felina. Come Cagliostro, il siamese di Una strega in paradiso che, a colpi di magia, aiutò Kim Novak a conquistare il vicino al Greenwich Village, patria di amori e disastri. E in tanti cartoni dove i gatti un nome ce l'hanno. Da Silvestro a Gerry. Da Hello Kitty al «televisivo» Garfield. Anche se il precursore fu Felix. Camminava come Charlot e viveva guai da uomini. Ebbe la ricompensa peggiore. L'evoluzione in Mickey mouse. Insomma, un topo. Lesa maestà. Eppure furono anni di Belle Epoque e i mici al cinema erano a loro agio perché il cinema l'avevano tenuto a battesimo. Nell'anonimato. Nel 1894 Edison li aveva messi sul ring in Boxing Cats ed Etienne-Jules Maray ne aveva lasciato cadere uno dall'alto riprendendolo per testare i fotogrammi. I Lumiére, che filmarono la colazione del loro bebé, fecero lo stesso con un gattino in Dejeuner du chat. Durava 47 secondi. Era il 1897. Come altri suoi colleghi pelosi di quel primo Novecento passò alla storia.

Non occorreva un nome per farsi un nome.

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