Cronaca locale

I 150 anni della Galleria tra aristocratici e ciclisti

La Callas, vestita da Medea, cenò con Grace al Savini E nel 1967 il Giro d'Italia partì proprio dall'Ottagono

Aspettarono ore, quella sera, in Galleria. Al freddo. In un Sant'Ambrogio da raggelare. Eppure. Ranieri e Grace rimasero lì. In piedi. Finché, dopo qualche ora, miracolosamente apparve. Indossava costumi di scena e, forse anche per questo, tutti si sottrassero al suo passo. Poi Medea abbassò pesantemente la maniglia del Savini, prese sottobraccio i principi e si sedette tranquillamente al tavolo. Come se nessuno avesse mai atteso. Ordinò un piatto di verdura. Non che fosse vegetariana, per carità. Negli anni Cinquanta la carne si mangiava eccome, ma lei era a dieta. Poco importava che fosse la Callas. Per di più, reduce dalla prima scaligera. Verdure, disse il medico. E lei obbedì.

Quel ristorante dalle comode poltrone cremisi era lì da cent'anni. E, non foss'altro che per le vestigia di illustri ospiti dei quali rimanevano fotografie alle nobili pareti, il secolo non lo dimostrava affatto. Hemingway vi pranzò con Agnes von Kurowsky, l'infermiera di Addio alle armi, da lui - tutt'altro che segretamente - amata. E da lei tutt'altro che ricambiato. Vi mangiarono Chaplin e Frank Sinatra che chiese di mandare qualcuno a Sassello a comprare amaretti per dessert, nel caso non ne avessero in casa. Luchino Visconti si accaniva sulla millesima sigaretta, perché all'epoca si poteva ancora fumare. E respirava avido. Fino alle viscere. Di sottecchi. Tra pensieri in volo verso quel maestro, Jean Renoir, che da dietro la macchina da presa aveva iniziato il conte di Lonate Pozzolo al tabacco oltre alla regia. Retrogusto di malinconia. La stessa che s'impadronì di un altro aristocratico. Il principe Totò. Capì che non poteva ordinare 'nu babà e nemmeno una pizza. Si arrese all'osso buco.

Eppure.

Prima di essere un ristorante, Savini era un cognome. Lo portava a spasso Virgilio, allampanato varesotto della Valcuvia, che a vent'anni lasciò i boschi di Cuvio per cercar fortuna nell'asfalto della metropoli. Erano gli anni Settanta dell'Ottocento e la sorte si divertì a mettere fra i suoi passi, quelli di Gaspare. Stesse origini varesine. Stesse speranze. Bastò uno sguardo per finire in società. E nacque una «Stella». La chiamarono così la loro birraria a Porta Genova. Visse qualche anno, poi le strade si divisero. Stabilini aprì l'hotel Eden, in Cairoli. Savini restò nel campo. Rilevò un'altra birreria, la Stockers che già all'epoca richiamava le tasche meglio fornite della città, ma iniziò a servire pasti. Il belmondo ne fece casa sua e Milano si assiepava lì davanti per vederne uscire il fantasma di Buster Keaton, Filippo di Edimburgo, Andreotti. E prima ancora la Duse e Giacosa. Noblesse oblige.

Nello stesso anno di apertura - era il 1867 - un rubizzo quarantenne del Pavese, Gaspare anche lui, approdò in Galleria a pochi passi dal varesotto. Non veniva da lontano. Aveva un caffè al Coperto dei Figini, il portico abbattuto per consentire il progetto del Mengoni. Si trovò a occupare più o meno lo stesso posto e, al rinnovato bar, regalò il suo cognome. Campari. S'inventò una bevanda sperimentata in passato e la chiamò Bitter. Puccini, Verdi, Boito e gli altri affezionati clienti passarono parola. Il bitter del signor Campari era una delizia. Troppo lungo. Tutti abbreviarono. E Bitter Campari fu.

Per entrare occorreva farsi largo fra i capannelli. Non tanto e non solo per l'aperitivo. Sconosciuti si ritrovavano a conversare anche con chi non avevano mai visto prima. La Galleria era diventata un salotto. Alte voci catturavano i distratti. Bastone e cilindro sedevano a fianco. Volti nobili della cioccolata. Paolo Biffi, confetturiere di casa Savoia, la chiamò offelleria, italianizzando il suo mestee. E quando seppe che era dedicata a Vittorio Emanuele II vi si trasferì armi e bagagli. Affacciato sull'Ottagono.

Fra quei tavolini lo chiamavano con deferenza il professore, ma Luigi Capuana, vero padre del verismo sarebbe diventato docente di letteratura solo una decina di anni dopo. All'epoca scriveva per il Corriere. Recensiva libri e spettacoli teatrali, dei quali spesso parlava con Emilio De Marchi, traduttore di La Fontaine per Sonzogno. E scrittore lui stesso. Demetrio Pianelli. Arabella. La sua Milano sbocciata sui Navigli che mai mise piede in Galleria.

Un salotto che si rispetti non può rinunciare a una libreria. La famiglia Bocca colmò la lacuna. Nel 1867 approdò a Milano dal natio Piemonte dove aveva già novant'anni di inchiostro alle spalle. Gli altri vennero tutti nel tempo. Un pellettiere ambizioso che vendeva borse e accessori da viaggio. L'impero di Prada nacque dalle mani di Mario e Martino che nel 1913 vi aprirono un negozietto a misura d'uomo. Alcuni mesi prima fu la volta di Mejana. Commerciava forbici e coltelli, oggi in vetrina mette stilografiche da capogiro. Nel '27 fu la volta del fumo e le pipe di Noli divennero un'istituzione.

Un secolo e mezzo dopo, molti di quei cognomi sono ancora lì. Vedette delle origini. Se n'è andato Viganò, l'ottico che aveva fatto sperare i milanesi di diventare presbiti anzitempo per comprare gli occhiali. Ne podi pù de vedegh no per mett i occiai del Viganò. E il desiderio si trasformò in proverbio. Oggi, in nostalgia. Il salotto si è internazionalizzato, ma era nei cromosomi. Esistevano quattro lunette sotto la cupola. E andavano decorate. Furono affidate ad artisti del mosaico e dedicate ai continenti. L'America, donna autoritaria contornata da pellerossa e schiavi. Asia riceveva il dono di un mandarino cinese scortato da indigeni. L'Africa aveva le sembianze di una florida egizia tra un leone e le messi del Nilo. Europa, bruna e severa, sorveglia gli strumenti dell'umano sapere, munita dell'alloro delle arti. L'Oceania era troppo lontana per meritare un ricordo.

La guerra fu lo spartiacque. Le bombe degli alleati cancellarono l'aristocratica creanza. Rimasero i capannelli, ma non si discorreva più di arti e lettere. Si parlava dei problemi dello Stato e di hashish legalizzato. Si urlava che il Milan. Che l'Inter. Che Fanfani e Rumor. Che i reggiseni delle femministe. Che il sindaco aveva messo una rete per non far entrare i piccioni. Ma qualcuno che aveva perso la bussola e amava passeggiare più di volare finì per entrarvi e capire che tutti quei piedi frettolosi non erano casa sua. E timoroso tentava di guadagnare l'uscita a ritroso.

Nel '67 - millenovecento, stavolta - per festeggiare il centenario, dall'Ottagono partì pure il giro d'Italia. Gimondi e Adorni. Anquetil e Balmamion. E Merckx. Al via su un tappeto rosso che nel tempo avrebbe ospitato anche le modelle. Il salotto era diventato una passerella. Sfilarono perfino Borrelli, Colombo e Di Pietro. Giudici di Mani pulite con lo scalpo di una classe politica alla fin fine demonizzata più dei ladri stessi, a tutt'oggi indefessi nel loro disonorevole ma puntuale lavoro. Mengoni, l'architetto che plasmò la Galleria, non vide nulla di tutto questo.

Morì il giorno prima dell'inaugurazione cadendo dalla cupola centrale.

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