Cronaca locale

«I giovani medici non sanno usare il bisturi»

Escono dall'università con la media del 28 o del trenta ed hanno la parete della stanza costellata di attestati e titoli di studio. Ma non sanno impugnare un bisturi. Eccoli i medici specializzandi lombardi: super preparati nella teoria. Un po' meno nella pratica.
A sollevare il problema è Roberto Carlo Rossi, presidente dell'Ordine dei medici di Milano. Il primo che osa dire ad alta voce quello che da sempre si sussurra nei corridoi. Ovviamente la situazione non è la stessa in tutti gli ospedali: in alcuni reparti si impara di più e in altri di meno. «Il problema - sollecita Rossi - è molto diffuso. La preparazione teorica dei nostri ragazzi è eccellente ma quella pratica non è neanche paragonabile a quella delle scuole europee e nordamericane. Bisogna rivedere le regole».
Rossi fa un confronto efficace: dopo un corso di quattro anni di aeronautica un giovane è perfettamente in grado di pilotare un aereo che vale 80 milioni di euro. Ecco, allora, dopo cinque anni di specializzazione un medico deve essere preparato a operare il cuore o il cervello di un uomo. «Le università della nostra regione - spiega il rappresentante dei medici - sono perfettamente in grado di dare questo tipo di preparazione. È urgente che ci si muova in tal senso».
Tuttavia per chi è agli inizi, non è semplice entrare in sala operatoria. I giovani assistono agli interventi, anche i più complicati, osservano la destrezza dei primari e dei chirurghi più abili, cercano di rubare con gli occhi tutti i trucchi del mestiere. Ma il percorso per diventare terzo assistente è davvero lungo. Per arrivare ad essere il secondo assistente del chirurgo spesso c'è da sgomitare. Raggiungere l'autonomia sembra quasi impossibile, pur lavorando nello stesso reparto per anni. «Non abbiamo un assetto legislativo che consenta di operare prima della fine della specialità - denuncia l'Ordine dei medici - e ci sono ancora parecchi problemi con le coperture assicurative». Problemi che riguardano i medici titolari, figuriamoci chi non è ancora in ruolo e nell'organico fisso dell'ospedale. Ovviamente la piaga della poca pratica si fa sentire soprattutto nelle specialità chirurgiche.
Le cose funzionano meglio nei reparti di medicina interna e affini dove gli specializzandi imparano a formulare diagnosi e a impostare le cure durante il «giro» dei letti del mattino assieme alle équipe. I primi a sentirsi insicuri sono i diretti interessati: i giovani medici che indossano il camice bianco da pochi anni. «A volte incontriamo medici che ci insegnano e ci coinvolgono - raccontano - Altre, per esigenze di lavoro, non riusciamo a fare molta pratica. E così fare un'ecografia o saper leggere davvero bene una radiografia diventa dura».
Qualche giovane medico racconta di aver visto colleghi arricciare il naso nelle cliniche Svizzere davanti al «titolo di specialità» preso in Italia. Da qui l'appello della categoria: «Dobbiamo mettere i nostri giovani in grado di competere con la concorrenza straniera. Abbiamo ottime università e insegnanti bravi.

Va solo presa qualche accortezza in più nel percorso della “gavetta“».

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