Cronaca locale

"Io, una vita per lo spettacolo iniziai come sosia di Marilyn"

All'attrice lombarda, 91 anni, il Premio Enriquez alla carriera. Dalla televisione alla prosa al Piccolo

"Io, una vita per lo spettacolo iniziai come sosia di Marilyn"

È segno della nostra epoca: trovarsi davanti persone con un gran numero di anni che ti fanno sentire vecchio e stanco, a dispetto dell'età ancora non veneranda. Rosalina Neri è una di queste. Ha 91 anni, la voce fresca, il sorriso spontaneo, progetti, amici («facciamo presto con l'intervista, mi aspetta un amico a pranzo dall'altra parte di Milano, gli porto il mio roast beef»). Ha una vita piena di affetti, con la figlia Angela e le nipoti grandi: una attrice, l'altra allieva di danza classica. Rosalina è un'enciclopedia vivente dello spettacolo, suo mondo fin dai primi anni 50, quando lei, ragazza di Arcisate, Varese, venne lanciata nella televisione degli esordi come Marilyn Monroe italiana, da Marcello Marchesi. «Mi fece un bello scherzo. Non mi sentivo la stupidina che imita Marilyn. Però lo ringrazio: quella definizione mi portò in Inghilterra, dove le sosia della Monroe andavano per la maggiore. Non sapevo una parola di inglese. Incontrai l'uomo della mia vita, il direttore d'orchestra e impresario Jack Hylton. Avevo 23 anni, Jack 65. Ma era lui il più giovane. Aveva un carattere meraviglioso. Lo amai come non avrei più amato nessuno. Jack è il papà di mia figlia Angela, ma non l'ha mai conosciuta: morì prima che lei nascesse».

Vivere quel grande amore significò entrare nel giro delle persone inseguite dai paparazzi. Lei bellissima - dicevano fosse più seduttiva della vera Marilyn -, con Jack, i divi, i cantanti, personaggi della cultura. Persino presidenti. «A New York, dove Jack aveva un appartamento, cenammo con John Kennedy: rane fritte alla provenzale al Twenty One di Manhattan. Kennedy aveva un fascino incredibile». Rosalina Neri restò in Inghilterra dodici anni. Imparò bene l'inglese («ma ho ancora il mio bell'accento lombardo»), mise in moto la sua intelligenza e con spettacoli di primo piano fece dimenticare d'essere stata sosia di Marilyn Monroe. «Tornata in Italia, mi rigettò in pista il regista Filippo Crivelli, un amico, tuttora in attività. Fu lui a portarmi alla Scala, alla Piccola Scala, teatrino dove si osava, adesso ricovero delle scene dismesse». Si dice nemo propheta in patria, per Rosalina così non fu. Recital, prosa, operette e opera come cantante, cabaret, televisione, cinema: non si è fatta mancare nulla. Ecco perché è meritato il premio alla carriera che riceverà il 30 agosto a Sirolo, nelle Marche, nell'ambito dei riconoscimenti intitolati a Franco Enriquez, assegnati ogni anno a chi si è distinto nel teatro e nella cultura.

«Sono felice del Premio. Il regista Enriquez lo conobbi di sfuggita: bellissimo, colto, intelligente. Un uomo raro». E Strehler? Che ricordo ne ha? «Quando gli dissi: ma perché mi ha fatto protagonista, non ho mai studiato recitazione, Strehler rispose che era proprio per questo. Mi diede il ruolo principale, al fianco di Franco Parenti, nella Grande Magia' di Eduardo De Filippo. Strehler aveva un senso dell'umorismo non italiano, simile a quello degli inglesi, che apprezzavo nel mio Jack, ma anche in Crivelli».

Dell'amica Valentina Cortese, scomparsa di recente, dice: «Povera stella, mi manca da matti. Andavo a trovarla e mi chiedeva se avevo portato pane e salame. A volte cantavamo insieme, per rivivere momenti della nostra vita. Negli ultimi anni non le hanno fatto mancare nulla, era accudita in tutto, ma questo non evitava che vivesse attimi di grande solitudine. Succede. Ho perso una vera amica, che mi ha aiutato tanto.

La conobbi al Piccolo. Finite le prove di uno spettacolo invitò noi del cast a casa sua, per mangiare qualcosa. Da quel lontano pane e salame agli ultimi tempi della sua vita, l'amicizia non ebbe mai ripensamenti».

Pesano gli anni? «Non li sento, ho sempre da fare. Sto aspettando la conferma per un recital a Lione, in autunno. Poi vogliono convincermi a mettere ordine nei miei ricordi. Da sempre tengo un diario, ne potrebbe saltare fuori un libro. Forse lo farò. Ma un pochino mi immalinconisce. Quando Valentina pubblicò il libro di memorie, poche settimane dopo ne trovai quattro copie abbandonate sulle panche della stazione Centrale.

Una tristezza! Anche se pare vada di moda abbandonare libri, affinché vengano presi e letti».

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