Cronaca locale

Il «Nome della rosa» di Eco e la filosofia del Medioevo

Nello spettacolo al Teatro Parenti luci e ombre del rapporto di amore-odio tra fede e ragione

di Giannino della Frattina

Adso da Melk: «Ecco lì il monastero, sembra un luogo abbandonato da Dio». Guglielmo da Baskerville: «Conosci forse un luogo dove Dio si sia mai trovato a suo agio?».

Sono 2 ore e 40 minuti e pochi euro ben investiti, perché fanno bene al cervello, ma anche all'anima. Poi è chiaro che va stabilito quanto quell'anno domini 1327 affrescato da Umberto Eco nel suo monumentale Nome della Rosa corrisponda davvero a quel vertice assoluto (forse mai più raggiunto) di quel Medievo nel quale l'uomo si erse con straordinaria sfrontatezza facendo leva su quel rapporto di odio e amore, ora simbiotico altre volte dialettico, tra fede e ragione.

Un dubbio, quello sulla fedeltà storica dell'interpretazione della straordinaria intelligenza ed enciclopedica conoscenza di Eco, dentro il quale ci guida l'affascinante spettacolo ora al Parenti con versione teatrale di Stefano Massini, regia di Leo Muscato e scene di Margherita Palli. In vista una lunga tournée per la collaborazione di tre Teatri stabili: di Torino, di Genova e del Veneto. Sicuramente uno straordinario virtuosismo l'ottima riduzione di quella cattedrale del pensiero eretta da Eco in quel suo primo romanzo edito da Bompiani nel 1980 e che creò un nuovo universo letterario. E par di capire che anche lo spettacolo si avvicini alla visione di Eco che in quei tempi e in quelle intelligenze privilegiava la descrizione delle ombre così bene interpretate dalla scenografia e a cui si oppone il razionalismo quasi illuminista (e un po' buonista) del frate francescano e inquisitore ovviamente pentito Guglielmo (Luca Lazzareschi). Lo schema più classico della polemica anticattolica che affonda gli artigli in una presunta età dell'ombra in cui oltre alle menti anche le carni venivano torturate in attesa dell'arrivo di una modernità che avrebbe dato luce agli uomini. Ma anche questa giustamente ideologica visione perfettamente riportata dalla versione tetrale, perché non c'è visione senza ideologia, non allontana lo spettatore dal fascino di una trama filosofica che a tratti dà le vertigini. Perché nemmeno nel più buio dei personaggi mancano frammenti di straordinaria Scolastica che avvicinano se non a Dio, almeno all'abisso che fa intuire l'immensità del suo mistero. Non nel crudele inquisitore domenicano Bernardo Gui inviato dal Papa alla dissertazione teologica o nell'apocalittico Jorge da Burgos ossessionato nella sua cecità dalle invettive contro la commedia e il riso del quel secondo libro della Poetica di Aristotele intorno a cui ruota tutto il dramma e neppure nel rozzo abate Abbone da Fossanova.

Un impero dei segni da cui farsi guidare in quel labirinto dell'essere ridisegnato dalla biblioteca del convento che va in fiamme insieme ai suoi tesori. E forse insieme alla pretesa di spiegare il mondo (e i suoi segni) con la sola ragione.

«Il nome della rosa», di Umberto Eco, versione teatrale Stefano Massini, Teatro Parenti fino al 12 novembre.

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