Cronaca locale

Quando i pacifisti si arresero e scoppiò la Grande Guerra

Crisi del fronte antibellico e solidarietà sopravvalutata tra le forze socialiste: ecco perché a perdere fu la pace

Quando i pacifisti si arresero e scoppiò la Grande Guerra

Walter Galbusera*

Il confitto franco-prussiano del 1870 pone fine a un lungo periodo di guerre tra gli Stati europei sancendo un nuovo equilibrio tra Stati nazionali. Per oltre quattro decenni non si combatterà più sul Vecchio Continente. L'Europa entra in un lungo periodo di pace e fino alla Grande Guerra esprimerà nel mondo un'effettiva supremazia militare, politica, economica, culturale. Tuttavia al di fuori dei confini europei i governi si muovono per ridefinire l'assetto coloniale tra vecchie e nuove potenze. Italia e Germania cercano di contrastare l'indiscussa supremazia di Inghilterra e Francia. Nel 1881 l'occupazione francese della Tunisia porta i due paesi sull'orlo della guerra e spinge l'Italia a sottoscrivere nel 1882 in chiave difensiva la Triplice Alleanza con Austria e Germania. In questi anni si verificano profondi mutamenti sociali e politici indotti anche da andamenti economici su scala globale che alternano fasi di notevole espansione a lunghi periodi di recessione e si sviluppano i partiti socialisti e le organizzazioni sindacali. Ciò favorisce anche il diffondersi di un vasto e articolato movimento pacifista, nato nei paesi anglosassoni nella prima metà del secolo XIX per iniziativa di gruppi religiosi protestanti. L'elemento propulsore del pacifismo era la sua dimensione etica che fatalmente portava a sottovalutarne le criticità politiche, come le irrisolte questioni delle minoranze e dei popoli oppressi e i limiti oggettivi della solidarietà internazionalista.

In Italia il pacifismo ebbe solide radici, soprattutto per il sostegno dei partiti operai e socialisti e di quella borghesia liberale che vedeva tradite le aspettative del Risorgimento. L'inizio del '900 segna la maggior espansione sull'onda dell'ampia mobilitazione contro la politica coloniale italiana di fine secolo che si conclude con la disfatta di Adua nel 1896 e la fine della lunga e contraddittoria carriera politica di Francesco Crispi. Ernesto Teodoro Moneta (garibaldino, direttore del Secolo dal 1867 al 1895, studioso e promotore dell'arbitrato come mezzo per la soluzione delle controversie internazionali, sostenitore ante litteram degli Stati Uniti d'Europa, premio Nobel per la pace nel 1907, ne è la figura più importante. Ne interpreta anche il declino quando nel 1911 non ritiene di dover contrastare l'occupazione della Libia ma soprattutto nel 1915 quando si schiera per l'entrata in guerra contro gli imperi centrali.

Due gli elementi più importanti. Il primo di ordine interno, perché nel movimento interventista democratico molti dei più attivi militanti provenivano da un passato di primo piano nel Partito socialista italiano da cui erano stati espulsi, come Ivanoe Bonomi e Leonida Bissolati, per posizioni considerate di riformismo ultramoderato, o come Benito Mussolini, che era passato in breve, da un massimalismo rivoluzionario e di pacifismo intransigente alla «neutralità attiva» e all'interventismo più deciso. Ma vi erano anche militanti socialisti come Cesare Battisti, deputato al Parlamento di Vienna con Alcide De Gasperi. Filippo Corridoni è un'altra figura significativa, protagonista di una brusca inversione di tendenza. Nel 1907 fonda il quindicinale antimilitarista Rompete le righe! ed è uno dei più strenui oppositori della guerra di Libia. Nel 1912 partecipa alla scissione della Cgl che dà vita all'Unione Sindacale Italiana di orientamento anarchico-rivoluzionario, ma nell'estate del 1914 diviene interventista e muore da volontario nell'ottobre 1915. Tra gli «interventisti democratici» non vanno dimenticati lo studioso Gaetano Salvemini, l'allora repubblicano Pietro Nenni (finito in carcere con Mussolini per i moti di Ancona contro la guerra), l'autonomista sardo, poi azionista Emilio Lussu. Così come i fratelli Rosselli, simbolo di un mondo giovanile che sente la necessità di un impegno come dovere morale verso sé stessi e la nuova società. Nel mondo cattolico non mancarono autorevoli voci interventiste come don Luigi Sturzo, don Primo Mazzolari e Filippo Meda, contraltare a Guido Miglioli, il più autorevole «sindacalista bianco».

Il secondo e più grave fattore di debolezza del movimento pacifista viene dalla sopravvalutazione della solidarietà internazionalista tra i partiti socialisti europei e dalla convinzione che il partito socialdemocratico tedesco non avrebbe anteposto l'unità della Germania alla solidarietà tra lavoratori e partiti socialisti di tutta Europa in difesa della pace. Invece il 4 agosto 1914 il parlamento tedesco vota i crediti di guerra, un'emissione di titoli di Stato per finanziare le spese militari. I socialisti tedeschi sono divisi ma alla fine accettano le scelte imperialiste diel Kaiser Guglielmo II. È la sconfitta più grave del pacifismo socialista in Europa e segna la fine della Seconda Internazionale. Il 2 dicembre 1914, a fronte alla richiesta di altri crediti di guerra, solo un deputato socialista, Karl Liebnecht, vota contro. Nonostante un forte partito socialista e un sindacato molto organizzato, la Germania si rivela una comunità che appoggia una guerra di aggressione.

Scrive in proposto con una certa preveggenza Ernesto Teodoro Moneta nel marzo del 1917: «Il tempo potrà cancellare i ricordi che sembrano indimenticabili della ferrea malvagità del militarismo tedesco. Ed anche il popolo di Germania verrà giorno che rinsavirà e comprenderà come lo spirito di libertà, lavoro pacifico, giustizia e amore tra popoli sia molto più fruttuoso di una barbara guerra, lungamente preparata e premeditata». C'è da chiedersi cosa possa aver provocato nella grande maggioranza dei tedeschi la decisione di appoggiare il Kaiser. Forse la frustrazione di un popolo che pur essendo divenuto con la propria intelligenza e col proprio lavoro un gigante economico si sentiva costretto a un insopportabile ruolo di «nano politico» sulla scena internazionale del tempo? Se da queste lontane vicende si può trarre un insegnamento di attualità dovremmo augurarci di riuscire costruire un'Europa di liberi ed eguali dove la solidarietà sia legata all'etica della responsabilità. Da oggi al 2 dicembre - ingresso libero da martedì a domenica (orari: 9-13 e 14-17.30) - nel museo del Risorgimento si apre la mostra «Il pacifismo sconfitto».

*Presidente Fondazione Kuliscioff

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