Cronaca locale

Quegli scatti d'autore Dal Giappone perduto

Il memorabile reportage di Felice Beato fotografo italiano nell'Oriente ottocentesco

Simone Finotti

Altro che Instagram, Pinterest e compagnia. Tempo ci fu in cui per scoprire mondi lontani non bastava scorrere le dita su uno smartphone: c'era da prendere armi e bagagli e votarsi all'avventura, anche a rischio della pelle. Con quella testarda abnegazione che guidò Felice Beato (1832 o '33-1909), italo-britannico pioniere del fotogiornalismo, sulle vie del mitico impero del Sol Levante. Che lontano, allora, lo era per davvero, e non solo in senso geografico.

Un «pellegrinaggio in Oriente» da cui il fotografo, reduce da un epico reportage sulla guerra di Crimea e da intense tappe in India e Cina insieme al fratello e al collega James Robertson, rimase stregato: giunto in Giappone da solo nel 1863, vi restò per oltre 15 anni fondandovi una fiorente attività fotografica. E scattando immagini memorabili, che si possono riscoprire - in originale - nella mostra «Alla scoperta del Giappone. Felice Beato e la scuola fotografica di Yokohama 1860-1910», a cura di Emanuela Sesti, aperta fino al 30 giugno alla fondazione Luciana Matalon (Foro Buonaparte, 67). Donne in kimono, virili lottatori di sumo, samurai e ufficiali in guerra, monaci buddhisti, piccoli artigiani, attori del teatro tradizionale, scene di strada, geishe che bisbigliano accanto a un paravento, imbarcazioni a vela, esili ponticelli sospesi su specchi d'acqua calmissima e le immancabili pendici innevate del monte Fuji.

Sono 110 le preziose vintage-prints in esposizione, «riemerse» dal Museo di Storia della Fotografia Fratelli Alinari di Firenze (città in cui Beato morì dopo un breve soggiorno in Birmania), insieme a tre album-souvenir con copertine originali in lacca, madreperla e avorio, che testimoniano il gusto orientalizzante ed esotico diffuso nell'Europa del secondo Ottocento, da cui l'Italia non era certo immune (sono gli anni del boom di Salgari).

Immagini che divennero ben presto vere e proprie icone, acquistate a caro prezzo e ricercate in mezzo mondo, grazie anche alle sapienti coloriture del pittore Charles Wirgman, che regalavano alle stampe un fascino inconfondibile in un'epoca in cui per colorare una buona fotografia poteva volerci anche mezza giornata. Tanto che, a un certo punto, fu necessario creare una sorta di «catena di montaggio», riunendo nell'atelier vari artisti locali.

Furono proprio questi ultimi a raccogliere il testimone e a proseguire nella produzione di foto «alla maniera di Beato», creando uno stile e una moda di successo.

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