Cronaca locale

Solo andata per l'apocalisse Binario 21 ora è un museo

Dalla Centrale partirono gli ebrei sui treni merci verso i lager. Oggi, con il Giardino dei giusti, è il tempio della memoria

Solo andata per l'apocalisse Binario 21 ora è un museo

Anche quella volta dissero che la barca era piena. Eppure, a Milano il mare non c'è. Quelle pochissime galleggiano sul Naviglio, ma non è la stessa cosa. E nemmeno la stessa barca. Adil però ci era salito ugualmente. E poco importa se faceva acqua. Perché in fondo è tutta questione di destino. Santi distratti. O sfiga. Quella che non è cieca né bendata. Quella che aggiusta il mirino. Spara. E colpisce. Adil, il Mediterraneo lo ha domato. Ma per quegli strani giochi del caso, dopo lo sbarco, si è ritrovato fra i profughi di una città senz'acqua. E parla di Mohamed, 15 anni, con la Svezia nei sogni. Ma non ce l'ha fatta. Di Aiman che in Scandinavia ha lasciato moglie e figli. L'hanno espulso e rispedito in Italia. Chissà poi perché. Ci riproverà, giura Adil. Chi fugge dalla Siria non si arrende. Non torna a fare il militare a vita. A rapire bambini. E saccheggiare. Benché pochi spiccioli tante volte facciano molti soldi tutti assieme. Ricchezze che puzzano. E sanno di morte.

Ha aspettato che tutti attorno a lui dormissero. Ma non si è accorto che Addouma, un sudanese di 21 anni, ascoltava. E raccontava di aver pagato 2500 dollari a un trafficante che li ha stipati su una barca come bestie. Poi su un'altra più grande. E dopo che il cibo è finito ed entrava acqua, c'era chi moriva. Di febbre. Di sete. «Non importa a quale dio crediate. Forse ci rivedremo ancora. O forse no. Ma una cosa sola resterà nel mio cuore: il ricordo del vostro aiuto». Adil e Addouma parlano di stragi a ruota libera, ma non sanno dove si trovano. Hanno dato loro ospitalità nel ventre della Centrale. Al «Binario 21». Quello che nessuno vede. Dove stipavano gli ebrei per le deportazioni. Quelli che nessuno vede. Ora. Come. Allora.

Anche a Liliana Segre, prima di approdare in quell'angolo nascosto, il 30 gennaio del '44, qualcuno aveva parlato di barche. E anche là, alla frontiera con la Svizzera, sopra Varese, il mare non c'era. Papà Alberto aveva pagato i contrabbandieri. Ma, oltre la sbarra, un poliziotto elvetico s'impuntò. «Non potete entrare, la barca è piena» disse quello. E li rispedì in Italia. La ragazzina gli buttò ai piedi i suoi tredici anni. E, singhiozzando, lo implorò. Ma quel tale fu inflessibile. Liliana e papà Alberto li presero a Viggiù di lì a poco. E finirono a San Vittore.

La mattina dell'appello, quando sentì il suo nome, Rino Messina si alzò quel che rimaneva del bavero del suo cappotto. Il collo di astrakan glielo avevano già strappato i militari. Si avviò a passo lento verso l'uscita. Senza una parola. E all'improvviso si sentì un tonfo sordo sul selciato. Non partì mai dal binario 21. Il suo viaggio finì lì. Gli altri furono messi in fila. Attraversarono i raggi dove erano assiepati i detenuti comuni. Gente italiana, allora. Perché a San Vittôr si parlava in milanese. E tirarono loro arance. Biscotti. Mele. Ma soprattutto li incoraggiavano. Li benedicevano. «Fu l'ultimo contatto con esseri umani» ricorda Liliana Segre. «Uomini straordinari che vedendo altri uomini andare al macello per la colpa di essere nati da un grembo e non da un altro, ne avevano pietà». Perché in fondo in ogni inferno c'è un angolo di paradiso.

Il binario 21 era un sotterraneo. Nascosto alla vista. Vi si scaricava la posta finché non fu deciso di caricarvi gli ebrei. Ne partirono migliaia. Senza nemmeno sapere dove sarebbero andati. Lo scoprivano nella Foresta nera. Tra le nevi. Quando il merci sostava in mezzo ai campi e i martiri venivano fatti scendere per vuotare i secchi maleodoranti in cui si riassumeva il loro gabinetto.

Auschwitz bei Katowice. Tutto era chiaro per sempre. Mario Abenaim riuscì a fuggire così. Nascosto dietro fili d'erba. Sopravvissuti come lui al Generale inverno. Un'intesa fra disperati. Muti. Infreddoliti. Quel ragazzo trovò riparo in una casa di contadini polacchi che lo spedirono a Odessa. Visse. Tornò in Italia. Si sposò. Ai figli diede il nome dei familiari uccisi nei lager. Nelle marce. O durante la liberazione. Nel 2004 la vita gliela chiese indietro Jahvè. L'unico che ne avesse diritto.

Ma, contro la follia, nemmeno lui poté. Gilberto aveva 17 anni, quattro più di Liliana. Era francese e faceva Hasson di cognome. Il suo peccato fu di essere sfollato in Italia. E quel 30 gennaio era anche lui sul marciapiede del binario 21. Risucchiato sottoterra. Nel buio di una menzogna fatta Storia. Fu costretto ad assistere impotente alle violenze e all'assassinio di Edith, la sorella maggiore. E di mamma Ester. In quel dramma li perse tutti. Il padre. Il fratellino più piccolo. E non seppe mai come riuscì a salvarsi, ma non fu più lui. Nel '45 tornò a Milano e prese una nave per il Sudamerica. Voleva raggiungere uno zio. Dimenticare per sempre. Ma nella traversata impazzì. Gli occhi dei suoi congiunti, ridotti a un fumo bianco che usciva da un camino, non sbiadivano nella memoria. E quel giorno morì anche la sua lucidità.

Ne ebbe troppa invece Anna Di Gioacchino che ricevette la benedizione dei «maledetti» di San Vittore dopo il tradimento. Fu invitata a sua insaputa a un appuntamento con le SS. Impose a se stessa di non pensare più ad avere una famiglia. Un marito e quattro figli. Solo per questo forse riuscì a sopravvivere ad Auschwitz. Lavorò nelle fabbriche delle croci. Uncinate. Ma tornò viva.

Il merci, al mattino di quella gelida domenica, partì con 605 persone. C'era anche un neonato. Tornarono in venti. Ma non fu l'unico convoglio salpato dal binario 21. Due mesi prima, il 6 dicembre del '43, ne erano stati imbarcati altri 250 e solo cinque sarebbero sopravvissuti. E prima ancora fu la volta di altri convogli. Tutti. Drammaticamente. Uguali. «Qui ci attendeva il treno e la scorta per il viaggio. Qui ricevemmo i primi colpi: e la cosa fu così nuova e insensata che non provammo dolore, nel corpo, né nell'anima. Soltanto stupore profondo: come si può percuotere un uomo senza collera?». Alla domanda di Primo Levi risponde una scritta scolpita nel muro del Binario 21. Oggi che è un museo. «Indifferenza». Quella che non lacerò Liliana Segre quando l'Armata rossa invase il lager e il suo aguzzino si spogliò. Nudo come aveva messo tanti ebrei. Ma stavolta, a fuggire, era lui. La ragazzina prese la pistola abbandonata per sparargli. Poi abbassò l'arma. Fu l'attimo straordinario in cui capì la differenza tra lei e quell'assassino. E fu veramente libera.

Anche dall'indifferenza.

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