Cronaca locale

Lo spirito indie del rock: così la musica dei nativi è diventata una frontiera

«Rumble» chiude il festival del documentario stasera all'Unicredit Pavilion: ingresso libero

Stefano Giani

Le origini. Là dove tutto nacque e prese il nome di rock. I nativi americani. Gli indiani, quelli con le piume, che caddero a Wounded knee e non solo, ma dai quali viene larga parte delle note e degli artisti che sono la colonna sonora di ieri e in buona parte di oggi. Jimi Hendrix, cherokee. Stevie Salas, apache. Robbie Robertson, mohawk. Joy Harjo, creek. Buffie Sainte-Marie, cree. Mildred Bailey, coeur d'Alene. Link Wray, shawnee. Già, il chitarrista che compose Rumble, blues sfornato dopo che la tubercolosi gli mise fuori uso un polmone e decise che quel ragazzo non avrebbe cantato. Quel brano è diventato un inno, ha accompagnato Pulp fiction, Blow e Indipendence day ma ha condizionato anche Desperado, L'esercito delle 12 scimmie, Voglia di ricominciare e It might get loud.

Cinema e musica si incrociano, come stasera, nella serata di chiusura del festival «Visioni dal mondo - Immagini della realtà» che - al termine della cerimonia di premiazione - proietta appunto Rumble, il grande spirito del rock (Pavilion, ore 21.15) con ingresso libero. Il pantheon della musica è tutto lì. Da Link Wray e il suo mondo di foto ingiallite che sanno di un passato remoto a Jimi Hendrix raccontato dalla sorella Janie. Origini cherokee anche nella musica di quella magica chitarra che incantò Woodstock nell'agosto più controcorrente della storia dell'uomo. Era il '69 e Mildred Bailey, nata in una riserva indiana dell'Idaho che raccoglieva cinque tribù, era già morta da 18 anni, stroncata da un attacco di cuore dopo aver impresso un solco indelebile in Frank Sinatra, nativo italiano, che mai fece mistero di essersi ispirato a quella Voice femminile.

Accordi da prateria. Suoni e melodie che trafiggono le immagini. Taj Mahal, afroamericano di Springfield nel Massachusetts, non ha nulla a che spartire con i nativi ma ne fu influenzato. Come Bob Dylan, dalle origini ebreo-ucraine, che s'innamorò di Arlo Guthrie e ne seguì le orme. ma non dimenticò i suoni di quei nativi. Di quegli indiani. Di quei popoli che con un nulla creavano atmosfere dal nulla. Ma li rendevano eterni. Generavano figli e nipotini su vinile. E anche se niente c'entravano con radici cherokee o navajo. Irochesi o sioux.

Rumble è la loro storia, ma per tanti, tantissimi versi, è la storia di tutti quelli che ascoltano musica. Le origini. Le radici. Sono lì. In quegli strumenti plasmati dalla povertà, sotto le tende che, cammin facendo, sono sparite. Hanno lasciato spazio a grattacieli. A studi musicali equipaggiati di sintetizzatori. Bassi. E woofer che scoppiano come tamburi in Africa. Per questo poco importa se a raccontare quest'affascinante favola sono anche i non nativi. Come Iggy Pop o Slash. Taylor Hawkins o Martin Scorsese. Quincy Jones o Billy Hancock. Una favola, signori. Niente altro che una favola.

E a marzo arriverà nei cinema.

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