Cronaca locale

"Lo vidi nella jeep col buco in testa"

Il racconto del commissario Pagnozzi: «Per la prima volta attaccavano la polizia»

"Lo vidi nella jeep col buco in testa"

Cominciò tutto per caso, con una camionetta che facendo manovra urtò un manifestante, all'uscita dal comizio sindacale al Teatro Lirico. Quel che seguì fu un inferno reso possibile solo dal clima di rivolta crescente di quegli anni, dalla convinzione sempre più diffusa che la rivoluzione fosse dietro l'angolo. E che lo scontro di piazza fosse la scorciatoia preferibile. Antonio Annarumma, agente di polizia, immigrato al nord per cinquecentomila lire al mese, lasciò la vita sul gippone che guidava, colpito al cranio da un tubo Innocenti usato come un rostro dai manifestanti. Pochi giorni dopo, il settimanale Lotta Continua - diretto allora da quel raffinato intellettuale di Piergiorgio Bellocchio - festeggiò l'evento con una grande foto in prima pagina dell'assalto alle camionette: «La violenza operaia dalla fabbrica alle strade».

Sono passati cinquant'anni e finalmente da ieri mattina il proletario Antonio Annarumma, ucciso in nome della rivoluzione, ha una lapide che lo ricordi, scoperta ieri mattina dal sindaco Sala in via Larga, di fronte al luogo in cui il Terzo reparto Celere e i manifestanti dello sciopero generale, entrarono in rotta di collisione. A tenere a galla il suo ricordo, in questo mezzo secolo, è stato solo il suo nome dato alla caserma della polizia in via Cagni. Ma il suo reparto era di stanza in un'altra caserma, quella tutt'ora in servizio di piazza Sant'Ambrogio: dove i suoi commilitoni pazzi di rabbia, rientrai dopo la battaglia di via Larga, diedero l'assalto ai loro comandanti, accusandoli di mandarli al massacro contro i violenti dell'ultrasinistra. Il generale Arista venne cacciato dalle camerate, ci furono scontri e feriti, si dice che volarono persino candelotti lacrimogeni. «Siamo stanchi di essere trattati come bestie», urlavano piangendo i colleghi dell'agente ucciso.

Per capire i fatti di via Larga, bisogna dare voce a quello che quel giorno era un giovane commissario dell'Ufficio politico e che sarebbe diventato uno degli sbirri più famosi della Milano nera: Antonio Pagnozzi, futuro capo della Squadra Mobile. «Con i miei uomini ero all'ex Verziere e quando udii gli ululati della sirene corsi in via Larga. Per la prima volta nel corso di un servizio di ordine pubblico ho visto i dimostranti attaccare decisamente la polizia. Ho notato subito, tra il fumo dei candelotti lacrimogeni, una figura con un'asta proiettata verso l'interno di un gippone. Questo gippone sbandò a sinistra e urtò una jeep. Mi avvicinai e vedi l'autista, il povero Annarumma, con un buco nella testa». Quel buco il poliziotto non se l'era fatto, come sostenne l'ultrasinistra, andando a sbattere contro il montante del parabrezza. Il primario del Policlinico Vittorio Staudacher che si vide portare l'agente ormai privo di vita, non ebbe dubbi: «La natura della ferita consente di affermare che l'agente Annarumma è morto subito dopo essere stato colpito da un lungo e pesante pezzo di tubo, lanciato con forza da qualche metro, oppure usato come una vera e propria lancia per colpire l'agente».

I due verbali di Pagnozzi e Staudacher non vengono dal processo all'assassino di Annarumma ma da quello, celebrato per direttissima poche settimane dopo, a tredici manifestanti (ma loro, all'unisono, dissero di essere passati in via Larga per caso) arrestati al termine degli scontri e accusati di radunata sediziosa e danneggiamento. «I dimostranti ci gridavano carne venduta, fascisti», testimoniò il poliziotto che era accanto ad Annarumma. Il giudice Angelo Salvini (padre di Guido, il giudice che decenni dopo scoprì gli autori della strage di piazza Fontana) ne condannò solo alcuni. E a pene assai miti. E l'inchiesta sull'omicidio dell'agente che fine fece? Negli archivi del tribunale, il calvario del celerino è riassunto in poche righe: fascicolo 38286, pubblico ministero Elio Vaccari, iscritto a modello B il 21 novembre 2019, parte lesa Annarumma Antonio. Ultima annotazione del Nucleo investigativo dei carabinieri, il 6 febbraio 1970. Il 27 marzo 1971 il pm Vaccari chiede il «non doversi procedere», ovvero l'archiviazione del fascicolo, perché il reato è «commesso da autori ignoti». Il poliziotto Annarumma ha il suo nome su una caserma, da ieri ha una targa appesa dove morì.

Ma non ha avuto giustizia.

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