Cronache

Dal Cottolengo agli immigrati. I buoni affari di "Suor Banca"

È nel cda della Compagnia di San Paolo ma ha dedicato la sua vita ai malati e oggi agli stranieri: "L'Europa non fa nulla. A occuparsi di questo dramma sono solo le associazioni caritatevoli"

Dal Cottolengo agli immigrati. I buoni affari di "Suor Banca"

Suor Giuliana Galli ha gli occhi limpidi e lo sguardo luminoso delle cottolenghine di cui scrive Ceronetti, i modi diretti di chi è abituato a occuparsi di cose concrete. A 80 anni compiuti fa avanti e indietro al volante della sua auto tra Moncalieri, dove abita, e la Piccola casa della divina Provvidenza, il Cottolengo, nel centro di Torino. «Finché la va, la va», sorride. «Quanto ai malanni basta non pensarci e soprattutto non prendere medicine». Per più di 20 anni è stata la responsabile dei volontari dell'istituto, il trait d'union tra il mondo esterno e uno dei luoghi simbolo della sofferenza umana. Nel 2007 è stata chiamata nel consiglio di gestione della Compagnia di San Paolo, prima azionista di Intesa SanPaolo, il più grande istituto di credito italiano. Per questo c'è anche chi l'ha chiamata «Suor Banca».

Cesare Romiti, ex numero uno della Fiat, racconta di quando lei lo accompagnò nel reparto più «difficile» del Cottolengo. Vide di spalle una bambina con dei bei boccoli biondi. Poi la bimba si voltò e lui si accorse che non aveva gli occhi.

«Sì, fece quasi il gesto di riprendere la porta che aveva appena varcato. Poi si controllò e rimase. Eppure di volontari al Cottolengo ce ne sono sempre stati tanti. I ragazzi delle parrocchie decisi a fare una profonda esperienza di vita, i pensionati con più tempo. E poi c'è chi di fronte ai propri problemi decide di non piangersi addosso e dedicarsi agli altri. Per molti è come fare un balzo per uscire da se stessi e dalla propria limitatezza, per aprirsi a un orizzonte più ampio».

E al Cottolengo l'orizzonte è quello dei più deboli

«Il Cottolengo è nato come ospedale per i malati poveri, quasi due secoli fa. Poi ha via via ampliato la sua attività. C'erano i bimbi abbandonati, le orfanelle, le chiamavano Luigine. Rimanevano fino ai 14-15 anni, le più deboli anche tutta la vita. Presto ha iniziato a dare assistenza agli handicappati, fisici e mentali. Naturalmente ha seguito lo sviluppo della storia».

E cioè?

«Il raggio d'azione è cambiato nel tempo. C'è un fattore demografico di cui dobbiamo tenere conto, di bambini abbandonati non ce ne sono praticamente più. Il welfare state ha ampliato l'ambito dei suoi interventi e ha iniziato a occuparsi direttamente degli handicappati che un tempo arrivavano da noi e che provenivano praticamente da tutte le parti d'Italia. Molti dei nostri ricoverati, come la bambina di cui parla Romiti, sono un po' alla volta tornati nelle regioni da cui venivano. A volte con qualche disagio, perché qui avevano trovato una casa. Da noi è rimasto un nucleo storico di persone che per vari motivi si è deciso di non trasferire altrove. Oggi il Cottolengo di Torino lavora molto per gli anziani, ha anche una scuola».

E lei personalmente si occupa anche di nuovi bisogni. Insieme a Francesca Vallarino Gancia, della famiglia produttrice degli spumanti, ha fondato una Onlus, Mamre, che offre assistenza psicologica agli immigrati.

«Abbiamo iniziato nel 2001 e in prima battuta abbiamo lavorato con le comunità romene e albanesi, cercando di intervenire soprattutto sulla condizione delle donne di strada. Poi le cose sono cambiate rapidamente e abbiamo dovuto fare fronte all'ondata proveniente dall'Africa subsahariana, aiutiamo soprattutto giovani nigeriane. Con noi ci sono antropologi, mediatori culturali, psicologi specializzati in etnopsichiatria. Cerchiamo di rompere il circolo vizioso di una cultura che imprigiona queste donne e le condanna anche quando cercano di uscire dal tipo di vita che fanno».

Proprio quello dell'immigrazione è la preoccupazione più grande degli italiani.

«È normale: il mondo è in guerra e noi vediamo le scintille più periferiche di un fuoco ben più terribile che arde in Paesi lontani. Dobbiamo usare il buon senso e pensare che per risolvere un fenomeno di dimensioni così grandi non basta certo una dichiarazione ai giornali. Ma su questi temi per popoli cristiani, che da secoli hanno il Vangelo come Magna Charta, il punto di partenza non può che essere uno solo».

E cioè?

«Quello evangelico, appunto: di fronte al volto dell'altro radicalmente bisognoso non posso voltare la faccia dall'altra parte. Il Vangelo è pieno di incontri con lo straniero. Il samaritano per il mondo ebraico è uno straniero, per di più visto con disprezzo. Il modello che ci viene indicato è proprio quello di uno straniero maledetto. Dei 10 lebbrosi risanati uno solo torna a ringraziare, e anche lui è uno straniero».

Tutto giusto, ma quando si legge che solo sulle coste libiche ci sono 500mila poveracci pronti alla traversata si ha la dimensione di un problema enorme. E la risposta non può che basarsi sulle categorie della politica.

«Certo, il problema è enorme. E i 500mila di cui lei mi parla sono solo una piccola parte di quelli che arrivano ogni anno via terra, sugli aerei, con ogni mezzo. La dimensione politica? Ovvia. Nelle Supplici di Eschilo, 50 donne in fuga dall'Egitto sbarcano in terra greca, ad Argo, e raggiungono il recinto sacro dove possono invocare il diritto d'asilo. Pelasgo, re di Argo, ha paura che se le aiuterà scoppierà una guerra con l'Egitto e decide di portare la questione di fronte all'assemblea cittadina. La politica, come vede, se ne occupava già allora. Così come, se è davvero alta e nobile, deve occuparsene oggi. Ma io vedo che questa benedetta Europa non riesce a decollare e che la comunità politica internazionale non c'è. E allora noto che su questo fronte l'unica presenza vera è quella di chi si occupa di carità».

Cambiando bruscamente tema: oltre che di carità lei si occupa anche di altro, alla Compagnia di San Paolo. Come ci è arrivata?

«A chiamarmi, nel 2007, fu il sindaco Chiamparino, il comune di Torino ha diritto ad esprimere due componenti del Consiglio. Il mio secondo mandato scadrà l'anno prossimo e non è prevista la possibilità di un ulteriore rinnovo. Ma va chiarito subito un possibile equivoco. La Compagnia è una delle Fondazioni definite “di origine bancaria” da quando, negli anni Novanta, fu separato il loro ruolo da quello delle banche. Le banche si occupano di affari, le fondazioni finanziano attività culturali e sociali. Proprio con gli utili delle banche alle quali hanno conferito parte del loro patrimonio. In questo senso le Fondazioni sono un sostegno fondamentale per il terzo settore e le fasce di popolazione più deboli. E in questo senso c'è continuità con quello che ho sempre fatto».

Restano comunque uno snodo di potere importante nella finanza italiana. E negli ultimi anni, come dimostra qualche scandalo bancario, non tutte hanno brillato per limpidezza.

«Le Fondazioni che fanno parte dell'Acri, l'associazione di settore, sono 88. E per valutarle bisogna esercitare l'arte gesuitica del discernimento. Bisogna distinguere chi si ne è servito per propri scopi e chi per ridare al territorio quanto al territorio spettava».

Lei con banchieri e finanzieri come si è trovata?

«Benissimo, ho sempre visto grande rispetto e competenza. Le regole a cui le Fondazioni sono assoggettate sono diventate sempre più severe. Ma qui a Torino la Fondazione San Paolo e la "sorella" Crt, sono sempre state in anticipo rispetto alle norme. Sia per quanto riguarda nomine sia per diversificazione e utilizzo del patrimonio».

Un'altra sua caratteristica è una sorta di «femminismo» religioso. Lei è arrivata a chiedersi che senso abbia ancora un conclave tutto al maschile...

«Sono nata l'8 marzo e non è un caso. Ma al di là delle battute e di tutte le altre considerazioni politiche e sociali su cui si può discutere, io parto da una posizione di rispetto della verità biblica: maschio e femmina sono fatti a immagine di Dio che li ha creati.

Se un genere non viene rispettato è l'immagine stessa di Dio a soffrirne».

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