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«Morucci dica chi uccise mio figlio: se lo fa mi batterò per lui»

La mamma di Mario Zicchieri, giovane di destra assassinato nel 1975, all’ex brigatista: «Mi basta una condanna minima»

«Morucci dica chi uccise mio figlio: se lo fa mi batterò per lui»

Luca Telese

Per trent’anni tutti si erano dimenticati di suo figlio e di lei. Maria Lidia Zicchieri, madre di Mario, assassinato a colpi di fucile a pompa: 29 ottobre del 1975, sezione Msi via Gattamelata a Roma. Mario aveva solo 16 anni. Oggi, mentre An torna parlare (oltre che delle altre) anche dell’odissea della sua famiglia, Maria Lidia è tempestata da richieste di intervista: giornali, radio, tv. Lei, - romana, passionale, piena di grinta ha accettato solo due inviti, Omnibus e Tg2, «Per tenere viva la memoria», spiega. Oggi però sente il bisogno di parlare ancora, dire di più. Perché crede che si possa uscire dalla spirale perversa «amnesia o vendetta». E per lanciare un appello duro (ma sorprendente) all’ex Br che secondo lei «o è responsabile dell’omicidio, o sa chi ha sparato»: Valerio Morucci. A lui, si rivolge: «Oggi può parlare, deve: non voglio vendette, per anni ho odiato lui e i suoi per ciò che avevano fatto a mio figlio e a Marco, che era con lui. Se oggi dice la verità, con coraggio, prometto: mi metto davanti ai tribunali perché gli diano il minimo di pena».
Signora Maria Lidia, cosa significa questo appello?
«Dopo trent’anni questo Paese può farsi carico dei suoi morti, fare verità: non per me, o per le altre madri di destra e sinistra senza giustizia. Per tutti, anche chi non c’era: il dolore del lutto avvelena le madri, ma anche la società. Per spiegarmi devo raccontare qualcosa di molto privato e doloroso che mi riguarda».
Prego.
«Quando Mario è morto non avevo neanche una foto di come era. Mario sfuggiva agli obiettivi come alla peste, non voleva farsi ritrarre. Di lui avevo solo due immagini: una quasi bambino, la foto di classe. La seconda, più recente, della sua carta di identità. Ma quella non potevo toccarla, nemmeno con un dito».
Perché?
«Mario era morto dissanguato. Il documento lo portava nella tasca posteriore, quando un tappezziere generoso gli corse addosso per fermare l’emorragia con la carta di giornale... Non ci riuscì, lui ripeteva: “Non ditelo a mia madre...”. Povero Mario».
Ha una storia quel documento.
«Rimase all’ospedale e poi andai a ritirarlo, insieme agli effetti personali. Quando la vidi la prima volta svenni, era ancora umida di sangue, sopra. La portai a casa e la chiusi in un cassetto».
E poi cosa accadde?
«La tirarono fuori quando il Msi fece costruire la tomba, per la lapide. Non potevo nemmeno guardarla: ma li pregai con il cuore che non la perdessero».
E non andò persa.
«La ebbi indietro avvolta in un foglio di carta in cui Donato La Morte, braccio destro di Almirante, scrisse di suo pugno: “Attenzione, restituire alla madre”».
Lo stesso La Morte che è braccio destro anche di Fini?
«Lui. Se sapesse! Quel suo appunto mi ha fatto compagnia per trent’anni: prendevo il pacchetto, lo sfioravo, non riuscivo ad aprirlo. Poi, col passare del tempo e il ricordo del volto di Mario che si indeboliva nella mia memoria andavo a prendere la caarta d’identità, e ogni volta non riuscivo a togliere quell’incarto: una fitta, un dolore fisico insostenibile, crollavo».
Perché mi racconta questa storia proprio oggi, signora?
«Solo ora posso toccarla. E sa perché?».
C’entra che gli imputati del delitto non furono condannati?
«Assolutamente sì. Sulla morte di Mario scrissero le cose più assurde, compresa la fesseria della faida nera, finché nel 1982 non parlò una pentita, Emilia Libera e disse: il delitto fu commesso da un commando di futuri brigatisti. Un battesimo del fuoco per farsi accettare in società. I tre responsabili del gruppo di fuoco? Vennero identificati. Le rivelazioni? Confermate da altri pentiti. Uno di loro, Walter Di Cera, raccontò: “Fu Seghetti, durante un addestramento in Abruzzo a dirmi che ad uccidere Zicchieri erano stati lui, Pecos e Germano Maccari”. Pecos era il nomignolo d’arte, se così posso dire, di Valerio Morucci».
Come andò il processo?
«Nel modo più infame. Lo Stato di allora ci trattò come cani. Eravamo pesci piccoli: la figlia di Moro aveva perdonato i sequestratori del padre... Mario era un ragazzetto di periferia, un morto di serie B, non potevamo fermare l’ingranaggio».
La prima sentenza quale fu?
«Insufficienza di prove, assolti. La difesa, noi, fummo prevaricati con ogni mezzo. Gli avvocati Gallitto e Giorgio addirittura irrisi dai giudici. Si trascurò persino la testimonianza dell’aviatore che aveva rincorso e identificato Morucci e Maccari!».
Perché signora?
«Quei brigatisti servivano a ricostruire l’unica verità che interessava lo Stato: Moro. Noi eravamo, si dice a Roma, d’impiccio».
C’era l’appello...
«Arrivarono a dichiarare il ricorso inammissibile, inventandosi uno sciopero. L’ha scritto su Il Messaggero una giornalista non certo di destra, la Sarzanini. Ecco, questo dolore l’ho portato dentro peggio di una ferita. Le mie figlie cacciate da scuola, mio marito che entrava e usciva dalle cliniche, la giustizia per noi non c’era. Sa quando l’ho toccata, poi, quella foto?».
Me lo dica lei.
«L’anno scorso, scopro per caso che Morucci, sarebbe stato ospite in una trasmissione su Sky. Chiedo di telefonare, ci riesco. Lui non se l’aspetta: sul video pare interdetto, quasi seccato».
Che impressione aveva di lui?
«Ho imparato a conoscerlo nei processi: gelido, controllato. Quel giorno, su Sky, cade dalle nuvole. Io esplodo: “Perché ha ucciso un ragazzo di 16 anni?”».
Quasi una fucilata, per lui.
«Sì, ma quello che mi colpisce è che Morucci non si scompone. Dice persino: “Non ricordo...”. Lei crede che se la accusassero di un omicidio per cui ha subito due processi potrebbe dire non ricordo? Io no».
Si è sentita male?
«Anzi: ero felice, liberata. La giustizia non l’avevamo, ma ero riuscita a fare quel che dovevo... quello dovevo... Al mio Mario».
Lo ha fatto.
«Oh, sì! E ora chiudo la storia del documento: dopo quel giorno ho potuto riprenderlo in mano. Ora posso anche mostrarvelo, non mi fa più male».
Ma allora perché ora vuole che Morucci parli ancora?
«Perché tutti hanno il dovere di dire quel che sanno, su tutti i morti di quegli anni: di destra, di sinistra, tutti. Un anno fa le Iene, mi fanno l’intervista doppia con la madre di Fausto Tinelli, un ragazzo del Leoncavallo ucciso a Milano. All’inizio ero scettica, poi sono stata felice di aver accettato: era una mamma come me, non ci eravamo mai viste, ma dicevamo le stesse cose, rifiutavamo vendetta e odio».
Qualcuno dice: non si riaprono le vecchie ferite, bisogna lasciare i morti in pace dove sono.
«E invece no, va fatto per noi, per Valerio Verbano, ragazzo di sinistra ucciso davanti ai suoi genitori! Per la famiglia Cecchin, che ha subito l’infamia di un omicidio, quello di Francesco, che non è nemmeno considerato vittima del terrorismo! Per i Mattei. Mi ha commosso sentire la madre di Virgilio e Stefano dire in tv che non vuole vendette, che la vendetta per gli assassini di Primavalle è vivere trent’anni con le loro coscienze sporche».
L’omicidio non si prescrive, sa che Morucci si mette in un guaio se risponde al suo appello?
«Maccari, che era con lui, è morto. Seghetti è muto, non parla più. Io prometto: se avesse il coraggio di parlare, mi batterò per lui, perché chiunque sia il responsabile, ottenga il minimo».
Lo farebbe davvero?
«Li hanno assolti quando avevano prove, possono punirli se confessano? Chiederei il minimo di pena, come La Russa e mamma Ramelli. Se serve indosso i cartelli davanti al Tribunale».
Perché dovrebbe rischiare?
«Per un solo motivo. Oggi è libero, ma non è nulla: un reduce, campa scrivendo brutti libri sulla sua Peggio gioventù. Avesse il fegato di parlare darebbe senso alla sua vita. Le pare poco?».
Difficile che rischi.
«Se la società non ci lascia sole, no. Se i giornali da oggi vanno a chiedergli: “Risponde a Mamma Zicchieri?”, no. Sennò mi quereli.

Io non mi scordo di lui, e non temo nulla».

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