Politica

Dopo 32 anni preso il killer del giudice

La Legge si è rimessa in moto grazie alle denunce della figlia del magistrato. Arrestato un sessantaduenne

Andrea AcquaroneOggi la si potrebbe dire inesorabile. Qualcun altro potrebbe obbiettare: lenta, tardiva, forse casuale. Come definire una Giustizia capace di arrivare con 32 anni di ritardo? Di eclissarsi salvo poi ricomparire in tutta la sua fragile pesantezza. Nei faldoni impolverati e ingialliti che raccontano la storia di un delitto «eccellente» ma da sempre scordato, all'improvviso si scrive un nuovo capitolo. Anzi un epilogo che potrebbe trasformarsi in prologo, proprio come accade nei serial tv.Fu un omicidio di mafia quello di Bruno Caccia, procuratore capo di Torino. Lo ammazzarono alle 11.30 di sera del 26 giugno 1983. Aveva 64 anni. Stava passeggiando col cane sotto casa, in via Sommacampagna, quando una Fiat 128 lo accostò. Il conducente gli sparò con una pistola, un complice scese dall'auto per finirlo. Adesso uno dei sicari ha un nome, un'identità che tanti, troppi, sembravano non voler scoprire. Ieri, in manette è finito uno 'ndranghetista, all'epoca poco più che ragazzo: Rocco Schirripa, 62 anni, ufficialmente panettiere con negozio nel quartiere Parella, via Campanella, periferia del capoluogo piemontese. Lui abitava fuori città. Nel giardino della sua villa, a Torrazza, troneggia la statua a grandezza naturale del «Padrino». Sia lì che nella zona dove lavorava tutti lo conoscono. E tutti lo hanno sempre temuto. Nessuno si stupisce per il suo arresto, l'ultimo di una lunga serie, si spera quello definitivo.C'è voluta una gola profonda - pare quella di un pentito che cominciò a parlare qualche anno fa - ma soprattutto tanto ingegno, raffinato dalla potenza della tecnologia, per incastrare il fornaio-pasticciere di origini calabresi. Persino la figlia del magistrato assassinato non ci sperava più. «Questo caso è stato sempre un trascurato», spiega a Radio 24 Paola Caccia. «Solo dopo tre denunce ci hanno dato ascolto anche a Milano. Noi abbiamo sempre dichiarato che non eravamo soddisfatti di come fossero andate le indagini... mi sconvolge che non ci sia stata in questi anni la grande volontà e testardaggine che mi sarei aspettata dai suoi colleghi nel far luce». La Squadra mobile di Torino, guarda un po' stavolta coordinata dai pm della Dda Milano Ilda Boccassini e Marcello Tatangelo, ha indagato in modo «singolare». Bluffando con trucchetto. Prima spedendo una serie di minacciose lettere anonime a sospettato e «amici», poi sorvegliandone le mosse grazie a un virus «iniettatogli» nel telefonino.Gli investigatori hanno sfruttato l'uscita di prigione di Domenico Belfiore, il boss mandante dell'omicidio, condannato all'ergastolo ma messo ai domiciliari per motivi di salute. Una famiglia la sua ai vertici delle cosche impiantatesi al Nord negli anni Ottanta-Novanta. Fino a quel giorno, Rocco Schirripa non era mai finito nell'inchiesta. Antico ma geniale il sistema con cui è stato incastrato: una busta con la fotocopia dell'articolo de La Stampa relativo al coinvolgimento di Belfiore nell'omicidio del procuratore, accompagnato dal biglietto: «Se parlo andate tutti alle Vallette. Esecutori: Domenico Belfiore, Rocco Schirripa; mandanti Placido Barresi, Giuseppe Belfiore, Sasà Belfiore». Tanto è bastato per scatenare una reazione a catena. Tutti cercavano il delatore. Telefonate e contatti intercettati grazie a un «baco» in grado di attivare il microfono e la videocamera dei telefonini ha fatto il resto. Di fatto ne è uscita una confessione.

«Rivelazione indotta», la definiscono gli investigatori.

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