Politica

Attacco al castello crociato Il terrore arriva in Giordania

Turista canadese tra i 10 morti nella sparatoria Il fondamentalsimo s'infiltra nel regno hascemita

Gian Micalessin

C'era una volta la Giordania, un regno moderato e filo occidentale, governato da un re Abdallah II molto vicino all'America e dalla bellissima Rania, una regina apparentemente più a suo agio nelle città europee che nei territori palestinesi dov'è nata. Ma quel regno non esiste più. E a farcelo intuire contribuisce l'attacco terroristico di Karak, la zona turistica famosa per il suo castello crociato, 120 chilometri a sud di Amman, dove, ieri, un commando armato integralista ha ucciso una turista canadese, due civili e sette poliziotti giordani per poi barricarsi con una dozzina d'ostaggi nei sotterranei del castello. Secondo le ricostruzioni i cinque o sei terroristi hanno prima attaccato una pattuglia di polizia per poi assalire un commissariato sulla strada del castello e barricarsi infine nella fortezza assieme una quindicina di persone. Ostaggi liberati, secondo le autorità, grazie all'intervento delle forze speciali. Le autorità giordane si sono però ben guardate dal far luce sulle finalità dell'operazione e sull'eventuale appartenenza del commando allo Stato Islamico. Una prassi diventata consueta da quando, nell'ultimo anno, gli episodi di violenza si sono spaventosamente moltiplicati.

Dietro gli eventi di Karak, zona d'origine di Maaz al-Kassasbeh il pilota catturato e bruciato vivo dall'Isis nel 2014, emerge però l'immagine di una Giordania ormai prigioniera della spirale fondamentalista. Una Giordania ben diversa da quel regno conosciuto, grazie anche alla pace con Israele siglata nel 1994 dal padre dell'attuale sovrano, come un simbolo di moderazione ed equilibrio nel tormentato panorama mediorientale. E con l'immagine del Paese sembra incrinarsi anche quella del suo sovrano accusato d'assistere con indifferenza all'ascesa dell'Islam radicale. Un sovrano paralizzato, secondo molti osservatori, dal timore di fronteggiare una rivolta alimentata non solo dall'estremismo religioso, ma anche dal crescente malcontento di molte tribù e di una popolazione colpita da una durissima crisi economica. In questo clima di estrema incertezza l'indicatore più allarmante resta quello sulla presenza di oltre 2500 giordani tra le fila dello Stato Islamico. Un piccolo esercito integralista, in trasferta in Iraq e Siria, a cui s'aggiungono le attività dei 7000 militanti di fede salafita presenti nel Paese e i successi di una Fratellanza Musulmana ritornata in Parlamento grazie ai 16 seggi conquistati alle elezioni dello scorso settembre. Per non parlare della deriva di almeno 200 moschee (su circa 6300) dove ormai gli imam rifiutano di condannare le uccisioni di militari e poliziotti vittime degli attentati integralisti.

A tutto ciò s'aggiunge il clima d'intolleranza e violenza diffusa che ha portato - il 25 settembre scorso - all'assassinio dello scrittore cristiano Nahed Hattar. Un assassinio firmato materialmente dallo Stato Islamico, ma facilitato dalla connivenza di un sistema giudiziario a cui è stato permesso - grazie anche al silenzio del re - d'inquisire e sbattere in galera un intellettuale colpevole d'aver postato su Facebook una vignetta in cui dileggiava non la religione islamica, ma il modo d'interpretarla dei folli dell'Isis. Un sistema giudiziario e una monarchia che si sono ben guardati dal fornire a Nahed Hattar scorta e protezione quando si è trattato di portarlo in quel tribunale di Amman dove un emissario dell'Isis lo aspettava al varco. Del resto monarchia e servizi di sicurezza giordani hanno messo la sordina anche all'uccisione dei tre militari americani, impegnati nell'addestramento delle truppe giordane, freddati il 3 novembre scorso da un soldato di fede islamista.

Un altro episodio ridimensionato e minimizzato per ordine di una monarchia convinta di poter evitare il contagio islamista abbassando la testa e nascondendola sotto la sabbia.

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