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Bersani usa Mediaset per attaccare Renzi su Italicum e welfare

L'ex leader: "Grazie al patto, il titolo della tv è cresciuto". Berlusconi replica: falso, per l'azienda nessun vantaggio

Bersani usa Mediaset per attaccare Renzi su Italicum e welfare

Roma - Visto che il gatto è in Australia, la minoranza Pd e Pier Luigi Bersani provano a far ballare un po' il suo governo, e a riprendersi per un giorno la scena. L'ex segretario impugna la clava e picchia forte su Matteo Renzi, proprio mentre quello nell'altro emisfero incontra Obama e si becca la benedizione e gli incoraggiamenti del presidente degli Stati Uniti. Bersani attacca il patto del Nazareno, accusando in pratica il premier di aver fatto un regalo a Berlusconi: «Dopo l'ultimo incontro Mediaset ha guadagnato il 6% in borsa, allora 'sto patto sarebbe giusto allargarlo a tutte le imprese, non a una sola». Pronta la replica del leader di Forza Italia: «È lontanissimo dal vero che l'accordo del Nazareno tenga su le azioni Mediaset che soffre invece del calo della raccolta pubblicitaria». Ribatte anche il ministro delle Riforme, Maria Elena Boschi: «Credo che il patto del Nazareno sia utile perché avere trovato un accordo con Forza Italia ci ha consentito di avere la riforma costituzionale approvata al Senato e la Legge elettorale alla Camera». All'ex segretario Pd comunque il dialogo col Cavaliere non piace per niente: «Non c'è alcuna ragione di legarsi a un patto con Berlusconi, alla lunga può venir fuori l'idea di un trasversalismo paludoso», avverte (sorvolando sul fatto che anche lui, ai suoi tempi, cercò di fare patti con Berlusconi per eleggere Franco Marini presidente della Repubblica, anche se poi finì come si sa).

Naturalmente, gli piace ancor meno l'Italicum su cui i due si sono accordati: «Per me il no ai nominati è un punto insuperabile, e credo che in Parlamento se si vuole una maggioranza si trova», assicura, con un eccesso di ottimismo. Ma quello che più irrita Bersani è essere indicato come il vecchio di fronte al nuovo incarnato da Renzi: «Non si può descrivere il Pd come modernizzatori contro cavernicoli, io non accetto lezioni di innovazione da nessuno. E il Pd non è nato alla Leopolda». Il Jobs Act, che la minoranza Pd ha appena dovuto ingoiare, gli sta sullo stomaco: «L'approccio al tema del lavoro non è corretto, rimettere in mezzo l'articolo 18 era inutile. Ma ora è difficile rimettere il dentifricio nel tubetto», riconosce con una classica metafora bersaniana. Gli replica indirettamente il ministro del Lavoro Poletti: il governo «ha scelto la strada giusta» e su quella andrà avanti, e il contratto a tutele crescenti «è il primo obiettivo da portare in porto entro l'anno». E il mondo del lavoro è in una crisi così dura, sottolinea, anche perché «le decisioni non si sono prese e i problemi non si sono affrontati».

A Milano, sotto il titolone «Sinistra di governo» (il sottinteso è che il premier, invece, è di destra) si son dati appuntamento ieri quelli che, dopo aver perso le elezioni, le primarie e pure il congresso, ora cercano di ritrovare un ruolo nell'era renziana del Pd. E l'operazione non è facile. Anche perché la faglia tra «vecchi» e «giovani», tra chi vede Renzi come un disgraziato «episodio» (D'Alema dixit) da superare e chi lo vede come un'occasione di rafforzamento, attraversa ormai platealmente anche la minoranza Pd. E così, per un Bersani e un Guglielmo Epifani («Una fase difficile come questa non si governa alimentando le tensioni sociali e eliminando i sindacati», tuona l'ex capo Cgil) che non nascondono la propria allergia ontologica per il nuovo leader, ci sono i giovani della sinistra Pd che difendono invece la linea della collaborazione col premier, riconoscendogli la leadership: «Non stiamo con chi ogni giorno vuole tirare freccette al governo. Dobbiamo dare una mano al Pd e all'esecutivo, e contribuire alla sua sfida con le nostre idee», dice il capogruppo Roberto Speranza. E proprio da Milano partono anche risposte dure agli attacchi sindacali all'esecutivo, con buona pace di Bersani ed Epifani, Speranza liquida come «un'offesa del tutto fuori luogo» gli attacchi di Landini all'accordo sul Jobs Act («Una presa per il culo», aveva detto il leader Fiom), e Cesare Damiano sottolinea l'autonomia del Pd e del Parlamento dal sindacato: «Non scendo al livello polemico di Landini.

Facciano il loro mestiere, noi facciamo le leggi».

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