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Capitan Bankitalia da 4 anni guarda affondare le banche

Per lui vale il principio del "non poteva non sapere": dal caso Mps a Etruria ha visto molto ma ha fatto troppo poco

Capitan Bankitalia da 4 anni guarda affondare le banche

La vera sfortuna per il governatore di Bankitalia, Ignazio Visco, coinvolto nel tourbillon causato dal salvataggio delle quattro banche locali (Banca Marche, Carife, Carichieti e Banca Etruria, quest'ultima molto «cara» al governo), è quella di non potersi scusare con un «non c'ero e, se c'ero, dormivo». È la giustificazione più utilizzata da tutti coloro che in Italia sono chiamati a vigilare su qualcosa e funziona quasi sempre perché il sistema istituzionale frammenta le responsabilità a tal punto che quasi mai si riesce a comprendere chi, come e quando abbia fatto qualcosa che non doveva.Nel caso di Banca Etruria, che alla vicepresidenza annoverava il papà del ministro Maria Elena Boschi, però, il governatore non poteva non sapere. E tutto ciò non perché ci si basi pasolinianamente su assunti apodittici, ma perché, come ha svelato Il Fatto Quotidiano, il 3 dicembre 2013 Ignazio Visco aveva inviato una lettera «riservatissima» al Cda (ma a quell'epoca Pier Luigi Boschi era solo consigliere) nel quale si sottolineava come l'istituto fosse travolto «in modo irreversibile» da un «progressivo degrado». Un modo molto aulico per sostenere che i finanziamenti erogati e non rimborsati imponevano alla banca accantonamenti che ne avrebbero eroso il patrimonio impedendole di svolgere la sua normale attività. Rilievi che indussero la Consob, l'Autorità che vigila sui mercati, a pubblicare un supplemento al prospetto informativo di una serie di bond subordinati. Sebbene non a conoscenza della lettera di Bankitalia, per la commissione guidata da Giuseppe Vegas le stesse ispezioni della Vigilanza di Palazzo Koch erano di per sé sufficienti a modificare lo scenario probabilistico di rendimento di quelle obbligazioni scrivendo nero su bianco che vi era il 64% di probabilità di perdere almeno la metà del capitale. I risparmiatori di Banca Etruria, invece, hanno perso tutto perché le nuove regole del bail-in, il salvataggio interno delle banche, ne hanno azzerato il valore. E dire che nel 2010 Visco (nessuna parentela con l'ex titolare del Tesoro cui l'accomuna l'amore per le imposte patrimoniali) affermò che le banche avrebbero dovuto «indirizzare il risparmio del pubblico verso i progetti più meritevoli».Forse ad Arezzo avevano le orecchie tappate visto cosa è finito nei conti titoli di tranquilli pensionati di provincia. E forse erano un po' chiuse anche quelle dei senesi. Gli ultimi due aumenti di capitale del Monte dei Paschi da 8 miliardi complessivi avevano un buco nel prospetto informativo. La Procura di Milano, investigando sulle perdite causate dai derivati sottoscritti con Nomura e Deutsche Bank dalla banca senese ai tempi della gestione Mussari, aveva scoperto un fatto di non poco conto. Mps continuava a computare i Btp sottostanti al contratto derivato come parte del patrimonio, sebbene l'operazione fosse ancora in essere. Insomma, per farla breve, nei 180 miliardi di attivi del Monte oltre tre erano virtuali. Almeno fino a settembre 2015, quando si è chiuso tutto.Eppure sin dal 2010 i tecnici di Bankitalia si erano piazzati stabilmente in quel di Siena e avevano notato che c'era qualcosa che non funzionava. La prima ispezione già aveva evidenziato «profili di rischio non adeguatamente controllati». A quell'epoca Visco era solo vicedirettore generale con responsabilità sull'area Studi ma di Mario Draghi, ex numero uno ora alla Bce, è sempre stato un fidatissimo consigliere come lo fu di Paolo Baffi e di Carlo Azeglio Ciampi (con Antonio Fazio, invece, non c'è mai stato feeling). Si dirà, è solo l'1,6% degli asset della banca. Ma è una questione di principio. Quando nel gennaio 2013 il bubbone esplose nella sua drammaticità, il governatore disse: «La Banca d'Italia non fa un'azione di polizia, cura la sana e prudente gestione». Insomma, se Mussari aveva nascosto i contratti in un armadio non lo si poteva sapere.Nell'ormai lontano 2009, Ignazio Visco sostenne che le banche sono «imprese di pubblica utilità» in quanto erogano il credito all'economia e, dunque, vanno salvaguardate. Un'affermazione forte per giustificare le nazionalizzazioni che tra Usa, Germania e Gran Bretagna allora andavano alla grande. Bankitalia soluzioni simili non le ha mai sponsorizzate. Nemmeno per la piccola Banca Network, una costola della Bpl di Fiorani poi travolta dal crollo della finanziaria Sopaf che l'aveva acquisita. È andata in liquidazione e i correntisti con depositi sopra i 100mila euro hanno perso la parte eccedente il tetto garantito dal Fondo interbancario di tutela. È ciò che sarebbe accaduto ai correntisti delle quattro banche «salvate» se non fosse arrivato il decreto del governo. Qualcuno ne ha già fatto esperienza.Certo, anche quando Bankitalia ha tutelato tutti le cose non sono andate bene. Per il salvataggio della Popolare di Spoleto il governatore s'è beccato un'indagine per truffa avviata sulla base di un esposto dei vecchi soci che hanno visto l'investimento svalutarsi. La messa in sicurezza della teramana Tercas è sotto lo scrutinio di Bruxelles perché l'intervento di 300 milioni del Fondo interbancario è considerato un aiuto di Stato e dovrà essere sostituito da un finanziamento volontario del settore bancario. E qui arrivano le note dolenti. Palazzo Koch ha perso un po' di smalto anche se la colpa non è di Visco. Sulle grandi banche vigila l'Europa e, se le piccole hanno qualche difficoltà, non si hanno più armi per convincerle a salvarle, come si faceva un tempo. Tant'è vero che Draghi s'è astenuto dal gettare una ciambella all'amico Ignazio.

Lasciato solo anche dal governo, che a Bruxelles si preoccupa solo di fare più debito e non delle banche italiane.

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