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Capriola di "Repubblica": tuonava contro il bavaglio adesso scopre la privacy

Centinaia di articoli contro la legge del Cav che doveva mettere un freno alla pubblicazione delle conversazioni Ora, con i ministri renziani coinvolti, invoca un filtro

Capriola di "Repubblica": tuonava contro il bavaglio adesso scopre la privacy

Bastava una parola, una parolina soltanto: bavaglio. È la parola che da decenni faceva irruzione sulle pagine dei giornali, Repubblica in testa - commenti, titoloni, editoriali, retroscena - ogni qualvolta qualche sciagurato di politico si sognava di invocare un argine alla diffusione di intercettazioni che nulla avevano a che fare con le inchieste, e che invece venivano zelantemente trascritte, puntualmente depositate, immediatamente consegnate ai giornali e spudoratamente pubblicate. «Legge bavaglio», veniva definito qualunque tentativo di mettere argine alla gogna.

Ecco, quella parola oggi è tabù. Adesso che alla gogna finiscono gli uomini di Matteo Renzi, gli stessi giornali e gli stessi giornalisti che fino all'altro ieri gridavano al bavaglio hanno rimosso la parola dal dizionario. Per rendersene conto basta dare un'occhiata alla rassegna stampa di questi giorni, e in particolare alla stampa più vicina al premier. Ieri sul tema si esibisce una cronista che alla parola bavaglio è affezionata: negli ultimi anni i suoi articoli hanno contenuto questa parola la bellezza di 360 volte, e sempre con riferimento ai tentativi di mettere argine alle intercettazioni irrilevanti. Quasi un tic lessicale, verrebbe da dire. Ebbene, adesso che si tratta di parlare dell'inchiesta di Potenza, e di come fatti privati siano finiti invano ai giornalisti, e di come si potrebbe combattere questo malcostume - e l'articolo lo fa, va detto, con precisione e buon senso - la parola «bavaglio» non compare mai, nemmeno una volta. Quando i brogliacci servivano a dileggiare i nemici, chi si opponeva era marchiato come il sicario di un nuovo Minculpop. Adesso che la stessa sorte tocca ai ministri renziani, della possibilità di imporre per legge un filtro al diluvio si parla laicamente, magari cautamente, un colpo al cerchio dei pm e uno alla botte dei politici amici. Ma quella parola-anatema, «bavaglio», non compare più.

Sarebbe un esercizio quasi cinico, andare a spulciare negli archivi degli stessi giornali oggi folgorati sulla via della privacy per computare le volte in cui sulle loro pagine le intercettazioni sono state usate per guardare nel buco della serratura: basti per tutti il messaggio di Anna Falchi a Stefano Ricucci («Sono la donna più felice del mondo perché ho te amore mio grande ti amooo, capito? Sono tua per sempre ricordalo!») che segnò forse il punto più alto di queste incursioni nelle camere da letto: al punto che, caso più unico che raro, dovette intervenire il Garante per la privacy. Ma un libro che raccogliesse il peggio del peggio, di quanto in questi decenni è stato offerto alla curiosità un po' morbosa del pubblico sarebbe un tomo voluminoso. Si va dal cantante Gigi D'Alessio, trascritto e pubblicato per dare lustro a una inchiesta altrimenti di zero appeal mediatico, a Paola Barale infangata gratuitamente da un'intercettazione su due spacciatori. Però più recentemente i guai hanno toccato anche vertici della sinistra. Come Massimo D'Alema i cui vini vennero additati al pubblico ludibrio grazie a un brogliaccio dell'inchiesta Cpl Concordia; e nella stessa indagine vennero depositati «per errore» le intercettazioni in cui Renzi dava dell'«incapace» al suo predecessore Enrico Letta.

Adesso insomma tocca al governo di centrosinistra assaggiare il fiele dei brogliacci: così delle opzioni per distruggere le conversazioni private, sui giornali di area si parla tranquillamente, senza impugnare il vessillo dell'articolo 21 della Costituzione.

Certo, magari senza entusiasmo, perché certe passionacce sono dure a morire; e guardandosi bene dal chiedere al nuovo leader dei magistrati, Piercamillo Davigo, perché nel 1995 ritenne giusto depositare l'intercettazione in cui la giornalista Alda d'Eusanio diceva a Craxi, latitante ad Hammamet, «ti do un bacio sulla bua», rovinandole vita e carriera.

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