Cronache

Caprotti, il genio dell'Esselunga che sfidò l'impero delle Coop

Morto a 90 anni il patron della catena. Rivoluzionò il modo di fare la spesa. Svelò gli affari delle giunte rosse

Caprotti, il genio dell'Esselunga che sfidò l'impero delle Coop

Il «Dottore» se n'è andato. Non varcherà più al mattino, come ha fatto per tanti anni con passione italiana e puntualità svizzera, le porte a vetri della sua Esselunga a Limito di Pioltello. Non si appunterà più al taschino della giacca scura il badge bianco con nome e cognome, Bernardo Caprotti, regola interna che applicava come un dipendente qualsiasi. Non detterà più gli appunti alla segretaria Germana Chiodi, non convocherà più l'amministratore delegato Carlo Salza. Non farà più impazzire i capi delle Coop né darà altro lavoro agli avvocati. Non girerà più la penisola in cerca di luoghi adatti a nuove aperture. Non metterà più piede nei suoi negozi, la grande passione segreta ma non troppo che coltivava il sabato mattina quando provava gusto a comparire in qualche supermercato Esselunga per fermarsi al banco-frigo della frutta e chiacchierare con i clienti, coglierne desideri e grado di soddisfazione, e tra una battuta e l'altra controllare pure se tutto fosse a posto.

Bernardo Caprotti non darà più filo da torcere ai sindacati, che sfidò a viso aperto negli anni di piombo, nella stagione dei picchettaggi violenti e degli espropri proletari, riuscendo dopo «vent'anni di tormento» a piegare la contestazione senza cedere al ricatto degli scioperi. Non ammodernerà più l'industria della grande distribuzione alimentare, da vero pioniere quale è stato, come fece quando aprì il primo supermarket italiano, introdusse i codici a barre alle casse e nei magazzini, e inventò il modo di pagare la spesa senza code. Non impartirà più lezioni di come si costruisce un'azienda e la si fa diventare grande e florida in un Paese che non sopporta chi dà lavoro, chi rischia in proprio, chi valorizza il merito, chi ama l'eccellenza, il bello, il buono. Lezioni che Caprotti ha elargito a modo suo, con tanti fatti e pochissime parole. Altro modo di comportarsi mal tollerato da queste parti.

Il patron di Esselunga è un eroe italiano che l'Italia non si è meritata. Un uomo curioso, coraggioso, di un rigore calvinista, che voleva piantare e far crescere «il germe della modernizzazione». Un liberale autentico, antifascista e anticomunista in pari grado. Un imprenditore che vedeva le cose prima e meglio degli altri, come uno scacchista che mentre muove una pezzo prevede già le successive mosse. E sa che darà scacco matto. Parlava di rado: mai data un'intervista prima di pubblicare il celeberrimo Falce e carrello, nel 2007. Non amava i fronzoli, andava dritto al punto. Era inflessibile, e lo era con tutti, dai figli ai dipendenti, dai fornitori ai collaboratori più stretti: ma poteva permetterselo perché il primo cui non perdonava nulla era lui stesso.

Ha fatto sconti soltanto ai milioni di clienti che hanno decretato il successo di Esselunga, un gioiello italiano, un gruppo cresciuto per la sola forza del marchio e degli uomini che l'hanno costruito. Il carattere schivo e lo stile essenziale avevano cucito addosso a Caprotti l'immagine di una figura altera. In realtà era un uomo di grandi passioni e quella con l'Esselunga è la storia di un innamoramento. Figlio di una dinastia di imprenditori tessili brianzoli, dopo la laurea fu mandato in Texas a imparare come si lavora il cotone. Lì, nel profondo Sud, vide queste strane botteghe, i «supermarkets», che vendevano di tutto. Quando i Rockefeller esportarono in Italia quel business, Caprotti fu della partita. E quando essi decisero di investire altrove egli ne rilevò l'attività abbandonando la manifattura di famiglia perché «colpito dal bacillo del retail», come scrisse nel suo bestseller. In realtà era il colpo di fulmine.

Gli States gli sono entrati nel Dna, dal modo di lavorare a quello di parlare: aveva il vezzo di usare parole o esclamazioni in inglese, tanto che la società capofila ha mantenuto la denominazione di Supermarkets italiani Spa. Esselunga è il frutto dell'unione tra la forza innovativa d'oltreoceano e la personalità di Caprotti. Edifici disegnati da grandi architetti perché la bellezza - la «visual art» - non è un accessorio. Prodotti di qualità al giusto prezzo perché la soddisfazione del cliente è il primo obiettivo. Ordine, cortesia, scaffali sempre riforniti secondo un modello organizzativo custodito con orgoglio geloso che prevedeva i «superstore» (non gli iper) riforniti più volte al giorno da «warehouse» (centri di distribuzione) interni.

Fu proprio per difendere la specificità dell'azienda che si decise a scrivere Falce e carrello, pubblicando montagne di documenti archiviati in anni e anni di torti subiti da giunte rosse a lui ostili e compiacenti con le coop. Il volume apparve nel 2007, lui aveva 82 anni e da poco aveva ripreso le redini del gruppo rispedendo a casa in limousine di lusso il management dell'epoca. Era l'ennesima sfida al potere consolidato, quel blocco tra politica, amministrazioni locali e imprenditoria assistita che gli aveva impedito di insediarsi in una parte del Paese.

Suo malgrado, Caprotti divenne un personaggio pubblico, il simbolo di tanti capitani d'industria che combattono in silenzio contro la burocrazia e altri nemici invisibili ma reali. Gente che non si arrende e investe con successo anche in tempo di crisi. Negli ultimi anni il cruccio maggiore è stato il rapporto con i figli maggiori, svoltosi più in tribunale che in famiglia. Un temperamento forte, un patrimonio importante, diversi modi di vedere il futuro aziendale. Ferite non rimarginate. Un balsamo gli giunse dai dipendenti il 7 ottobre dell'anno scorso, compleanno numero 90: i 22.218 lavoratori dell'Esselunga comprarono una pagina del Corriere della Sera e una del Wall Street Journal per augurare al «Dottore» (naturalmente in inglese) «never give up», mai mollare. La tempra di Caprotti ha retto fino a ieri.

Ora ha qualcun altro con cui discutere di talenti, di pane e di pesci.

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