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"Che pena la mia foto usata pure dai mafiosi"

L'autore dello scatto simbolo di Falcone e Borsellino: «La ostentano come un trofeo»

"Che pena la mia foto usata pure dai mafiosi"

Tony Gentile, 53 anni, il sacro fuoco del giornalismo ce l'ha ancora tutto dentro. Come il primo giorno in cui scelse di fare questo mestiere. Con la macchina fotografica a tracolla. E il sogno di narrare notizie attraverso immagini.

Tanti clic, uno dietro l'altro, che fanno la cronaca, a volte destinata a trasformarsi in storia, quella con la «s» maiuscola. Proprio ciò che è accaduto con l'immagine-simbolo dei giudici Falcone e Borsellino, che si sorridono a vicenda. Un mix di amicizia, complicità e un comune obiettivo: sconfiggere la mafia.

Tony Gentile, da fotoreporter di razza, colse l'attimo e lo immortalò con la sensibilità di un Robert Capa e la prontezza di un Henri Cartier-Bresson. Così nacque, quasi inconsapevolmente, uno scatto diventato icona. Un bianco e nero dove Falcone sembra sussurrare qualcosa all'orecchio di Borsellino. Una frase forse importante. Forse banale. Chissà.

Tony, quando e in che occasione facesti quella foto?

«Era il 27 marzo 1992. Falcone e Borsellino si erano dati appuntamento al palazzo Trinacria di Palermo, nel rione storico della Kalsa».

Perché eri lì anche tu?

«Ovviamente per lavoro. Avevo 28 anni, collaboravo con l'agenzia Reuters e con la cronaca locale del Giornale di Sicilia. Quindici giorni prima, il 12 marzo, era stato ammazzato dalla mafia Salvo Lima. In città si respirava una brutta aria. E noi tenevamo gli zoom puntati su personaggi del calibro di Falcone, Borsellino e Ayala».

La foto fu pubblicata l'indomani?

«No. La feci vedere ai miei capi, ma finì in un cassetto».

E quando fu tirata fuori?

«Il 23 maggio 1992, giorno dell'attentato a Falcone. Da allora cominciò a circolare in maniera sempre più incessante».

A rilanciarla ulteriormente fu poi l'altro attentato, a Borsellino, il 19 luglio dello stesso anno.

«Due date drammatiche, che hanno segnato una tra le pagine più orribili del nostro Paese».

Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, due simboli della lotta alla mafia di cui, attraverso la tua foto, si sono impadroniti in tanti.

«Forse in troppi...».

Cioè?

«Quella foto l'ho vista esporre anche da individui che di Falcone e Borsellino hanno cominciato a parlare bene solo dopo che la mafia li aveva ammazzati entrambi».

Ti riferisci ai professionisti di una certa «antimafia da salotto»?

«Mi infastidisce molto l'uso strumentale e opportunistico di uno scatto che rappresenta plasticamente la lotta dello Stato contro la mafia».

Vuoi dire che i contesti in cui quell'immagine viene utilizzata non sempre sono ortodossi?

«A volte vedo opportunismo, come se si volesse tirare per la giacchetta una foto che è - e deve rimanere - patrimonio solo delle persone oneste».

Eppure quella stessa fotografia è stata trovata perfino nei covi di alcuni mafiosi.

«È vero. I mafiosi amano ostentarla alla stregua di un trofeo di caccia. Come a dire: Loro ridono, ma noi li abbiamo uccisi. A vincere siamo stati noi».

Alla fine, invece, chi ha vinto?

«Hanno vinto Falcone e Borsellino. La foto in cui scherzano è una pellicola di speranza per il passato. Ma anche per il futuro».

Intanto gli omicidi di mafia non si fermano.

«Guai ad abbassare la guardia. La mia foto, nel suo piccolo, può contribuire alla causa della legalità, sono ben felice che venga usata».

Libri, film, sceneggiati, magliette, striscioni: ma non c'è il rischio che le figure di Falcone e Borsellino vengano inflazionate?».

«Figurati che c'è chi le loro facce se le è perfino tatuate».

Tre giorni fa è morto Totò Riina.

«Un'ottima occasione per tornare a parlare dell'insegnamento lasciato da Falcone e Borsellino».

Un insegnamento sopravvissuto al loro martirio. Sublimato in una foto. Dove sorridono.

Da eroi.

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