Cronache

Cibo, politica e contraddizioni Ecco il (retro) gusto del Salone

Viaggio negli affollati padiglioni dell'evento torinese Che fa business celebrando i contadini e la biodiversità

Cibo, politica e contraddizioni Ecco il (retro) gusto del Salone

Andrea Cuomo

nostro inviato a Torino

I l Salone del Gusto è quella cosa che dura cinque giorni e finisce oggi e che si svolge a Torino ogni due anni, più spesso di un'Olimpiade ma meno spesso del festival di Sanremo, per dire. Il Salone del Gusto è quella cosa che ha come simbolo quest'anno alcune braccia minacciosamente levate, un po' rebeldes, come si dice ora a sinistra, alcune con il pugno chiuso come sulla copertina di un lp degli Inti Illimani. Il Salone del Gusto è quella cosa che richiama ogni anno a zonzo per i padiglioni del Lingotto - il quartiere operaio della Fiat trasformato negli ultimi anni in un'area fieristica e commerciale - centinaia di migliaia di visitatori, alcuni dei quali con il carrello della spesa come fossero al mercato rionale solo che per entrare paghi il biglietto. Il Salone del Gusto è quel posto in cui chef famosi fanno gli inesorabili show cooking che si vede lontano un chilometro (zero) che si annoiano anche loro e lo fanno solo per il soldo ma qui è tutto business etico e quindi certe cose non sta bene dirle.

Il Salone del Gusto è quella cosa che poi c'è anche Terra Madre, che è un sottosalone davvero di sinistra, manifestazione che celebra «le comunità dell'alimentazione impegnate a salvaguardare la qualità delle produzioni agro-alimentari locali». E quindi vedi aggirarsi tra i corridoi donne e uomini di colore con tuniche colorate che vanno ad assaggiare la 'nduja e il pesto senza aglio abbandonando per qualche minuto lo stand dove fanno a loro volta assaggiare l'Igname di Arbollè, che è una patata che sembra una baguette perfetta per sfamare eserciti di reietti. Il Salone del Gusto è quel posto che a noi piace, anche se ci vedi Grillo (Beppe) abbracciato a Carlìn Petrini, inventore di Slow Food e di tutta questa faccenda. E pochi metri avanti un Grillo (insetto) chiuso in un sacchetto nel banchetto dell'associazione milanese Entonote come un cibo qualsiasi.

Al Salone del Gusto emergono tutte le contraddizioni di questa epoca strana, in cui alimentarsi è un atto politico (e infatti mangi grillo e voti Grillo) ma questa cosa che farlo consapevolmente e bene spendendo il giusto (e cioè tanto) è una cosa soltanto di sinistra funziona fino a un certo punto. E sì, c'è ancora quell'aria in giro da festa dell'unità gourmet, e in sala stampa ci sono pacchi di copie del manifesto a disposizione, in cui spiccano titoli impagabili come: «La gastronomia sudamericana, lezioni di resilienza» che ci fanno sentire l'odore del ciclostile. Però i tempi sono cambiati, le cittadelle dei g(i)usti non funzionano più anche perché ci si stanca perfino del radicalismo chic agroalimentare. E allora si avvertono strane saldature tra mondi lontani. Un collega con cui chiacchieriamo davanti a un caffè naturalmente organico colombiano e che protegge le comunità che lo producono, ha assistito ai discorsi di inaugurazione di Petrini e del ministro leghista dell'Agricoltura Gian Marco Centinaio e ha percepito come i due, partendo da punti molto differenti, mondialista il primo e localista il secondo, alla fine vogliono la stessa cosa: la felicità del contadino, che sia di Cerignola o del Piauì. E in fondo questa retorica della riscoperta ritorno alla bottega, che è il ritornello del Salone edizione 2018 (assieme al: mangiamo meno carne) si ricollega a questa idea di bloccare il commercio domenicale che favorirebbe l'odiatissima grande distribuzione e penalizza la amatissima famiglia tradizionale in nome di un ritorno alle vecchie abitudini.

Insomma, è istruttivo girare per questa parte di Torino, guardar facce, assaggiare formaggi svizzeri e ciociari, vedere le persone spintonarsi per un assaggio se gratis (e allora Franza o Spagna purché se magna), intrupparsi nello scolaresche che, nelle pause, fuori dai padiglioni, buttati per terra stanchi di chissà cosa, mangiano i panini nella stagnola preparati da mammà invece che quelli imbottiti di presìdi Slow Food venduti ovunque a quattro o cinque euro. E bevono Coca-Cola, che non sarà slow, non sarà etica, non salverà le foreste ma evidentemente a loro piace più dello sciroppo di agave venduto allo stand del Messico.

Questa cosa qualcuno la chiama abitudine, qualcun altro inconsapevolezza e qualcun altro libertà.

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