Politica

Le città sicure e la sinistra dei muretti

Le città sicure e la sinistra dei muretti

Contrordine compagni e muratori (a scanso di equivoci: si parla di mattoni, non di massoni) abbasso i muri ma viva i muretti.

È questa l'ultima battaglia della politica, l'ultima ossessione di una sinistra che vive - e rischia di farci morire - di inutili distinguo. Anche edilizi. Sì, perché nell'ultimo anno un coro unanime si è alzato contro gli edificatori di muri. I muri in questione erano quelli che avrebbero dovuto sigillare ermeticamente gli Stati dall'arrivo di orde di migranti. Il mai edificato muro col Messico promesso da Donald Trump durante la sua campagna elettorale, quello - anzi quelli, al momento ne ha alzati due - del destrissimo premier ungherese Viktor Orban e quello di Calais eretto dal socialista Francois Hollande per evitare l'ingresso eccessivo di boldriniane «risorse», non si sa mai che paghino troppe pensioni.

Tutti contro i muri, in Italia. Tutti picconatori. La sinistra italiana più che una accolita politica sembrava una compagnia di demolizioni. Ohibò i muri, simbolo di divisione, di chiusura, della solita destra dei chiavistelli e delle spranghe alla porte. Certo, la sinistra delle torri d'avorio, dei centri storici e dei salotti buoni foderati di ancor migliori e correttissime letture, non ha bisogno dei muri per difendersi. Non viene nemmeno raggiunta da una lontana eco della canea di profughi e migranti.

Così ancora pochi giorni fa, il premier Paolo Gentiloni, a proposito della strage di Barcellona diceva con la solita flemma: «Noi diciamo no alla politica dei muri e della paura». Perfettamente coerente con la sua tradizione politica e culturale.

Però il premier e gli intellettuali gauchisti sono ormai l'ultima retroguardia di una sinistra che, facendo finta di nulla, sta cambiando idea: si fanno largo i «ragazzi» del muretto. Perché i muri non saranno stati ancora del tutto sdoganati, ma i muretti - per fortuna - vanno di gran moda. I muretti sarebbero, in gergo tecnico, i New Jersey. Quelle paratie di cemento che, dopo gli attentati a Nizza del 2016, stanno popolando le nostre città. Restano solo i pacifisti sessantottini come l'archistar Boeri a sostenere che dovremmo difenderci con alberi, vasi e fioriere. Versione 2.0 dei fiori nei cannoni.

Il sindaco di Milano Giuseppe Sala li ha piazzati - giustamente - all'ingresso della Galleria Vittorio Emanuele e in piazza del Duomo, per impedire un eventuale attacco terroristico in auto o furgone. Così hanno fatto i primi cittadini di Verona, Venezia, Bari, Palermo, La Spezia e moltissime altre città italiane. E il muretto - sia lodato il suo inventore - è la versione politicamente corretta e sinistramente accettabile del muro. Il sindaco di Ventimiglia per farlo sembrare meno muro e meno legalitario ha persino deciso di farlo dipingere con le bombolette dai writer.

Ma anche se «etto» rimane un muro. Che divide e per fortuna protegge. Se la sindachessa di Barcellona - profeta dell'accoglienza e del multiculturalismo - li avesse piazzati anche sulle Ramblas magari la contabilità dei morti sarebbe stata meno drammatica. In Italia, meglio tardi che mai, sembrano aver tutti capito l'importanza del muretto. Il muretto diventa così un simbolo delle nostre città e della nostra epoca. Dell'ipocrisia di chi ha criticato chi voleva costruire i muri dall'altra parte del mondo e ora è costretto a piazzarne a decine in ogni centro storico, in ogni concerto, in ogni sagra e persino alla festa dell'Unità di Bologna dove i politici del Pd, quest'anno protetti dai muretti, diranno sicuramente quanto è brutta e ignorante e volgare la società dei muri e delle barriere. Acme del paradosso.

Chissà, magari fra qualche mese anche a sinistra riusciranno a dirlo: dobbiamo combattere, siamo in una «guerretta».

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