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Dai maialini scambiati per droga ad Albaro trascritto «al baro»: quando l'errore rovina una vita

Basta una parola fraintesa per mandare in galera un innocente. Molti gli esempi, da Modena a Catania

Dai maialini scambiati per droga ad Albaro trascritto «al baro»: quando l'errore rovina una vita

Si può finire in carcere per una consonante? In Italia sì. Chiedetelo a Gianfranco Callisti, elettricista della provincia di Modena, che ha passato sei mesi in cella, tre ai domiciliari e altrettanti in libertà vigilata. Innocente, ma condannato dallo strumento inflessibile dell'intercettazione. Il suo soprannome, «Callo», venne confuso con il nome di «Carlo», persona coinvolta nell'inchiesta. Una erre di troppo, insomma. Il Grande fratello giudiziario può diventare un'arma a doppio taglio, scivolosa e ferale ogni volta in cui l'attenzione o la competenza degli organi inquirenti latitano. E quando ciò avviene il risultato è devastante, ma solo per i cittadini accusati ingiustamente.

Come i fratelli Antonio e Michele Ianno, di San Marco in Lamis (Foggia), detenuti per tre anni e accusati di concorso in duplice omicidio e di essere mafiosi. Tutto falso. Perché l'efficiente macchina della giustizia aveva pensato bene di far analizzare le intercettazioni a un consulente bolognese che, ça va sans dire, non capendo nulla del dialetto foggiano, ha interpretato a modo suo.

Stesso discorso per Emanuele Nassisi. Per gli inquirenti, la parola «auto» significava «droga» e la frase «sutta la porta», punto di ritrovo dei cittadini di Parabita (Lecce), era invece considerata la porta di casa dello spacciatore. Nomi in codice mal decifrati, errori di interpretazione delle intercettazioni costati due mesi di cella. Da innocente.

Nel tritacarne giudiziario ci finì anche un ex calciatore, Omar Milanetto, accusato di associazione a delinquere finalizzata alla frode sportiva e trascinato in carcere dove trascorse 17 giorni. Peccato che poi si rivelò tutto falso anche a causa di alcune intercettazioni mal analizzate, come quella in cui l'ex giocatore del Genoa spiegava di volersi recare ad Albaro per fare compere, frase trascritta però come se Milanetto avesse detto di voler andare «dal baro» per truccare qualche partita.

Di giorni in carcere invece Antonio Francesco Di Nicola, autotrasportatore di San Benedetto dei Marsi, se ne fece sette. Dall'ascolto delle intercettazioni, veniva chiamato in causa da alcune persone, ma con un soprannome che non era il suo, bensì di un altro. Nelle telefonate si parlava di un certo Francesco detto Broccolone e si sosteneva che aveva trasportato dalla Spagna 22 chili di droga. Ma il soprannome di Di Nicola era Cozzolino e in quel periodo si trovava in un altro posto.

La malagiustizia rovina persone, imprese e famiglie. Ne sa qualcosa Mauro Quinto, titolare di una delle più importanti aziende europee di commercio ittico e accusato di concorso esterno in associazione di stampo mafioso. Per lui si sono spalancate le porte del carcere. Poi, dopo «soli» undici anni, arrivò l'assoluzione. Il fatto non sussiste. Come non sussisteva l'interpretazione che gli inquirenti avevano dato ad alcune conversazioni messe a verbale tra cui, come riportava la cronaca del Secolo XIX, quella con un gruppo di fornitori siciliani: «Dovete lavorare bene e per farlo dovete andare a vedere come lavorano al mercato di Marsala». Frase interpretata dalla Dia di Catania come un tentativo della mafia del tonno di espandersi anche nella Sicilia occidentale.

Per raggiungere infine il paradosso basta citare la vicenda di Donato Privitelli, che ha passato 101 giorni in carcere accusato di traffico di droga. Una delle pistole fumanti era un'intercettazione in cui usava il termine «maialini» per riferirsi agli stupefacenti.

Peccato che poi si scoprì che i suini erano veri e che l'interlocutore al telefono era un macellaio.

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