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Dai trionfi alla tribuna, vivere senza il Pd

Dai trionfi alla tribuna, vivere senza il Pd

Quel che resta del Pd è una malinconica fotografia, l'ultimo momento ufficiale di un partito sparito dai radar dopo la legnata del 4 marzo. Espressioni assorte, o meglio tristi, segnano l'umore nero della scombiccherata delegazione reduce dall'incontro alla Camera con il premier incaricato Conte. C'è un Orfini fattosi adulto all'improvviso, in giacca scura e cravatta, dopo che il fratellino Renzi gli ha spento la Playstation. Marcucci con il baffo a spazzola e l'ampia stempiatura ricorda un commendatore anni '50 in gita con l'Automobile Club. Il reggente Martina si propone come un Civati fuori tempo massimo, però meno belloccio e brillante. Delrio, il vecchio saggio sempre più incanutito, ha lo sguardo di chi ha lasciato alle spalle il meglio della carriera politica.

Stride quest'immagine di disarmo con gli ampollosi cinegiornali in bianco e nero del 1978, giusto quarant'anni fa, quando le consultazioni per il quarto governo Andreotti erano gestite in prima persona da Berlinguer e Terracini, non dalle terze linee ritrovatesi al comando dopo una disfatta. Altri tempi, altra sinistra, altri fallimenti storici.

Per un Paese che, volente o nolente, ha vissuto di Pd, fa impressione il distacco che circonda quello che è stato a lungo il primo partito italiano. Anche nei media di sinistra si è ridotta drasticamente l'attenzione su ipotetici congressi o sui fuochi di artificio dell'Emiliano di turno.

Intanto un Renzi sempre meno loquace prepara una lontana rivincita elettorale con una nuova forza che supererà l'esperienza Pd. Sembra passato un secolo da quando lo stesso Matteo, appena entrato nella stanza dei bottoni a 39 anni, si poneva come un principe magnanimo che ai 50 avrebbe ceduto il posto ad altri, senza abusare del consenso che gli elettori gli avrebbero tributato a vita. Era appena il 2014.

La Boschi, prima inseguita dai paparazzi da Formentera al Cadore, ora si premura lei stessa di postare qualche grazioso ritratto tra impegno sociale e momenti di svago. Carrai, il finanziere amico dell'ex premier candidato a tutto, è svanito dai retroscena politici: chi se ne frega dei suoi affari. Così come non sfugge l'indifferenza che avvolge le disavventure fiscali di babbo Renzi; la saga familiare che prima evocava complotti di 007 e governi in frantumi ora suscita al massimo un'alzata di spalle.

Ah, è altrettanto fragorosa la diserzione collettiva di intellettuali e artisti che solo pochi mesi fa non mancavano di farsi notare dalle parti del Nazareno. Non si sa mai, una parte in una fiction Rai, una comparsata al festival di Sanremo, un tweet di incoraggiamento di Renzi durante il lancio di un disco. Sembrano costoro i meno frastornati a vivere in una dimensione politica sovranista-populista, dove la retorica democratica sui valori universali è stata spazzata dalla ruspa di Salvini e dalle promesse di reddito facile che tanto ha giovato a Di Maio.

Quattro anni fa il bel mondo progressista celebrava con gli occhi lucidi il 41% del Pd alle Europee e si crogiolava nell'idea di aver trovato in Matteo Renzi un leader moderno e duraturo. Nessuno avrebbe immaginato la marginalità politica che si sarebbe abbattuta sui dem neppure 48 mesi più tardi sotto forma di un Aventino obbligato. Forse non era solo invidia da vecchio comunista in disarmo quella profezia di Bersani dopo l'ultimo boom alle urne: «Le partite amichevoli non contano». Nell'estate 2014 arrivò Conte alla guida della Nazionale, oggi un altro Conte si è insediato a Palazzo Chigi.

Ma stavolta il Pd resta in tribuna.

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