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Quando il deputato Mattarella bocciava le "riforme a maggioranza"

Così l'attuale presidente stroncò il Porcellum quando era alla Camera: "No ai sistemi elettorali di comodo, votati in fretta e solo da una parte"

Quando il deputato Mattarella bocciava le "riforme a maggioranza"

Roma «È un errore cambiare la legge elettorale ad ogni legislatura. E ancor più sbagliato è farlo a maggioranza».

Se al Quirinale avessero cercato una ragione per tenere l'Italicum sui binari dell'armonia parlamentare l'avrebbero trovata. Presto, senza forzare la mano. Sarebbe bastata una telefonata del presidente della Repubblica all'ex deputato Sergio Mattarella, con l'invito a far recapitare sul più alto tra i Colli delle istituzioni italiane una copia dei resoconti d'Aula. Quelli nei quali sono annotate le cronache delle battaglie consumate ai tempi dell'approvazione del Porcellum, di cui l'attuale capo dello Stato - quando ancora sedeva a Montecitorio - fu tra i protagonisti, dando forza teorica alle questioni poi trattate dal Sergio Mattarella giudice costituzionale chiamato a dichiarare l'incostituzionalità delle norme marca Calderoli.

Un incrocio di destini in una strana storia di cui ai giorni nostri s'è persa la memoria. Le carte raccontano: è il 13 ottobre del 2005. Alla Camera approda la legge elettorale congegnata dal senatore leghista. Dai banchi del nascituro Ulivo prodiano si levano critiche di merito. «Espropriate i cittadini del diritto di scegliere», accusa dai Ds Anna Finocchiaro, mettendo nel mirino le liste bloccate. Tuttavia, è sulla scelta di procedere a colpi di maggioranza che il clima si arroventa. «Nessuno cambia le leggi elettorali a proprio uso e consumo. I cambiamenti, quando ci sono, poggiano sul consenso di tutte le forze politiche principali», lamenta preoccupato il compagno di partito Piero Fassino. Tocca a Mattarella, petalo della Margherita: «Questa riforma sopprime i collegi locali e prevede circoscrizioni elettorali molto ampie, con liste bloccate di candidati: è tutto nelle mani delle segreterie dei partiti». A bruciare, però, è sempre il metodo. In proposito, una settimana più tardi, in sede di discussione delle modifiche della Costituzione, il futuro presidente non risparmierà censure: «Governo e maggioranza hanno cercato accordi soltanto al loro interno e ogni volta che hanno trovato l'accordo lo hanno blindato. Ciò perché non volevate rischiare di modificare gli accordi al vostro interno. Ancora una volta, emerge la concezione che è propria di questo governo e di questa maggioranza, secondo la quale chi vince le elezioni possiede le istituzioni, ne è il proprietario. È una concezione profondamente sbagliata. Le istituzioni sono di tutti, di chi è al governo e di chi è all'opposizione».

Ma già il 13 ottobre del 2005 mena fendenti: «Sono presenti tanti difetti, provocati dalla fretta convulsa con cui si sta procedendo, senza neppure avere, né consentire ad altri, il tempo per riflettere adeguatamente sul suo contenuto e sulle sue conseguenze, attraverso una procedura assai discutibile. Non si procede così per approvare una legge che deve regolare la vita democratica del Paese. Va sottolineato che questa riforma elettorale è viziata da numerosi motivi di incostituzionalità».

Dieci anni dopo, il Porcellum già azzoppato dal Consultellum è stato spazzato via dall'Italicum, coi suoi 100 maxi collegi da 600mila elettori e 100 capilista eletti sicuri e designati dalle segreterie romane, come da legge approvata in solitaria (con tre voti di fiducia) dal Pd nemmeno tutto intero, tra i silenzi dei fieri difensori della democrazia. Probabilmente solo colpa dei telefonini - loro pure muti - o dei ritardi del postino: quando i resoconti arriveranno a destinazione, il Quirinale farà sentire la sua voce.

C'è da giurarlo.

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