Cronache

E adesso tocca al latitante Pietrostefani

Il mandante, con Sofri, dell'omicidio Calabresi deve scontare ancora 14 anni

E adesso tocca al latitante Pietrostefani

Milano «Ai figli va insegnato che qualsiasi situazione va affrontata senza scappare, altrimenti si rischia di scappare tutta la vita». Parola di Giorgio Pietrostefani, 21 ottobre 1999.

Ma tre mesi dopo l'impegnativa dichiarazione, Giorgio Pietrostefani scappò. E sta ancora scappando. Non è tutta una vita, ma poco ci manca.

Nell'agenda dei criminali degli anni di piombo da assicurare alla giustizia, l'ex capo del servizio d'ordine di Lotta continua occupa ora il primo posto, dopo che la «primula rossa» Cesare Battisti ha concluso la sua latitanza. Se la cattura di Battisti non è stato un caso isolato, se davvero l'Italia sta mettendosi alla caccia dei fuggiaschi, per Pietrostefani la situazione potrebbe farsi rapidamente pesante. Perché si sa benissimo dove sta: in Francia. Un paese vicino, legato al nostro da patti reciproci e dagli accordi europei di Schengen, e dove solo i cascami della «dottrina Mitterrand» e una certa pigrizia italiana lo hanno tenuto finora in salvo.

Da questa parte delle Alpi non lo aspettano i quattro ergastoli di Battisti ma una pena comunque cospicua. Come mandante, insieme ad Adriano Sofri, dell'omicidio del commissario Luigi Calabresi (17 maggio 1972) è stato condannato a 22 anni, ridotti a 16 da due indulti. Un paio li ha fatti in galera, tra il 1997 e il 1999, quando fece il beau geste di tornare in Italia per assistere al processo di revisione, salvo risvanire nel nulla. Ne resterebbero quattordici, e senza nessuno dei vincoli che impediscono a Battisti di ottenere i benefici carcerari.

Ciò nonostante, Pietrostefani non ha alcuna intenzione di mettere fine spontaneamente ala sua fuga. In questi anni, le sue dichiarazioni hanno oscillato da proclami improbabili («Pretendo le scuse di questo paese», «la giustizia che ci ha condannato è stata una giustizia infame») a parziali autocritiche sulla campagna d'odio conro Calabresi, «ero un fanatico che credeva che bisognava fare la rivoluzione». Ma ha sempre negato di avere dato l'ordine a Leonardo Marino di andare con Ovidio Bompressi ad ammazzare Calabresi.

Quando lo arrestarono, grazie alle confessioni e alle accuse di Marino, aveva smesso da un pezzo di pensare alla rivoluzione, e si era piazzato come manager alle Reggiane. Il pentimento di Marino portò alla luce il lato buio del suo passato: non solo leader del servizio d'ordine di Lc, ma anche capo della struttura occulta dell'organizzazione, protagonista del dialogo con le nascenti Brigate rosse. Dagli atti del processo Calabresi, Pietrostefani emerge come il capo indiscusso dell'ala militarista dell'organizzazione, la più sensibile alle lusinghe della guerriglia, la più decisa nel chiedere la testa di Calabresi. Solo alla fine, e dopo essersi opposto invano e a lungo, alla fine anche Adriano Sofri firmò la condanna a morte del commissario.

Ma mentre Sofri ha scontato la sua pena, Pietrostefani svernava tranquillo in Francia, scrivendo libri sull'Africa e dirigendo comunità di accoglienza. L'ultimo a garantirgli ufficialmente ospitalità fu Lionel Jospin, primo ministro socialista, nel 2000.

«Riportiamo in Italia Pietrostefani, la Francia smetta di coprirlo», chiede ora il deputato leghista Paolo Grimoldi.

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